LA GUIDA

Che cos’è l’open innovation (e perché tutti dicono di volerla fare)



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Il modello di innovazione individuato nel 2003 dall’economista californiano Henry Chesbrough, in base al quale le aziende possono ricorrere a risorse provenienti dall’esterno (startup, università, fornitori), ha ormai raggiunto uno stadio di maturità. Ecco la più recente definizione, come si applica e i vantaggi

Aggiornato il 22 gen 2024



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L’open innovation ha ormai raggiunto nelle aziende italiane una fase di maturità. Per oltre due decenni il mondo delle imprese ha sperimentato una profonda trasformazione al proprio interno e nei rapporti con l’esterno grazie all’innovazione aperta. Si tratta di un approccio strategico e culturale in base al quale le aziende, per creare più valore e competere meglio sul mercato, scelgono di ricorrere non più e non soltanto a idee e risorse interne, ma anche a idee, soluzioni, strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare da startup, università, istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori e consulenti. Allo stesso tempo questo nuovo approccio all’innovazione comporta una revisione dei processi aziendali e dei profili lavorativi nell’ambito di una mutata cultura interna.

Secondo le ricerche dell’Osservatorio Startup Thinking, questa è ormai una pratica comune, adottata dalla maggior parte delle aziende italiane, che percepiscono benefici concreti e sono indotte quindi a perpetuare nell’approccio. Se nel 2018 il ricorso all’Open Innovation riguardava il 57% delle grandi imprese, nel 2023 questo tasso è salito all’86% (92% se si considerano solo le grandissime imprese con oltre 1000 dipendenti), un dato vicino a quello internazionale, secondo cui il 95% delle principali imprese in USA, UK e Germania pratica Open Innovation (The Open Innovation Barometer, The Economist Group 2022). L’Open Innovation cresce anche nelle PMI, che la adottano nel 48% dei casi, con punte del 63% per le Medie imprese. Ma come è nato il termine e come si è evoluto questo innovativo approccio strategico?

COME NASCE IL TERMINE “OPEN INNOVATION”

Il primo al mondo a dare una definizione della nuova strategia di innovazione che sta trasformando il mondo delle imprese è stato Henry Chesbrough, economista e autore statunitense, nonché Faculty Director del Garwood Center for Corporate Innovation in California.

Chesbrough ha battezzato il nuovo concetto con un libro intitolato proprio “Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology”, pubblicato nel 2003 dalla Harvard Business School Press. Lo studioso rifletteva sul fatto che la globalizzazione avesse reso sempre più costosi e rischiosi i processi di ricerca e sviluppo, perché il ciclo di vita dei prodotti era diventato più breve. Secondo Chesbrough il paradigma della “closed innovation”, ovvero la ricerca fatta all’interno dei confini dell’impresa, non poteva più bastare nonostante i timori delle aziende di non essere più gli unici “proprietari” delle invenzioni e i legittimi tentativi di tutelare la proprietà intellettuale con brevetti e altri strumenti. Dopo il primo saggio ne sono seguiti altri su questi temi. L’open innovation, dunque, ha già quasi un quarto di secolo, ma la sua implementazione sta avvenendo in modo graduale e, sorprendentemente, non tutti hanno ancora compreso pienamente l’efficacia di questo strumento.

Definizione di open innovation

Negli anni anche la definizione di open innovation si è evoluta con il naturale evolvere della situazione economica e sociale. Ecco la sua più recente spiegazione da parte dello stesso Chesbrough:

“L’Open Innovation è un modello di innovazione distribuita che coinvolge afflussi e deflussi di conoscenza gestiti in modo mirato tra i confini dell’organizzazione fino a generare anche ‘spillover’, il fenomeno che avviene quando un’attività economica produce effetti positivi anche oltre gli ambiti per cui agisce“.

Nella sua spiegazione il docente sottolinea come l’applicazione dell’innovazione aperta non si esprima solo attraverso azioni, magari occasionali, come crowdsourcing, collaborazioni con startup o università, o user innovation, ma come la sua attuazione implichi la revisione dei processi aziendali e dei profili lavorativi, con una forte componente culturale.

Tutti gli aggiornamenti sullo stato attuale dell’open innovation sono contenuti nell’ultimo libro di Henry Chesbrough “Il futuro della open innovation – Creare valore dall’innovazione aperta nell’era della tecnologia esponenziale” (Hoepli)

COME NASCE LA COLLABORAZIONE TRA AZIENDE E STARTUP

Il paradigma dell’open innovation ha potuto nascere e svilupparsi perché negli ultimi anni è emerso chiaramente che l’innovazione chiusa non era più sufficiente: da una parte le conoscenze e i talenti viaggiavano (e continuano a viaggiare) a una velocità sempre maggiore a causa delle reti e della facilità negli spostamenti, perciò è diventato più difficile trattenerli in azienda a vita. Dall’altra parte, i mercati dei capitali, come insegna il caso delle startup della Silicon Valley, hanno cominciato a concentrarsi anche su aziende basate su modelli di business e approcci completamente nuovi e disruptive rispetto al passato.

Come ha spiegato a EconomyUp Solomon Darwin, direttore esecutivo del Garwood Center for Corporate Innovation della Haas School of Business presso la University of California (la “casa” di Henry Chesbrough e dell’open innovation), da un lato le grandi aziende sono dinosauri che hanno bisogno di innovazione e per questo si rivolgono alle giovani imprese. Dall’altro le giovani imprese, simili a uova, hanno bisogno di un ambiente protettivo che faccia loro da incubatore per crescere bene e rafforzarsi.

In questa video-intervista Darwin spiega perché i big hanno necessità di ricercare spunti, idee e soluzioni tra le giovani realtà innovative.

Solomon Darwin: "Le startup sono come uova dentro ai dinosauri"

IL MODELLO DELL’OPEN INNOVATION

La formula dell’open innovation prevede che un’azienda possa accedere alle innovazioni disponibili sul mercato integrandole con il proprio modello di business. Un processo del genere consente anche un più rapido time to market, ovvero un tempo minore per passare dalla fase di ideazione del prodotto o servizio o alla sua immissione sul mercato: di alcune di queste fasi, come per esempio la prototipazione di alcuni manufatti, possono occuparsi in determinati casi anche realtà esterne come le startup. Secondo questo schema, diventa maggiormente competitivo non chi produce al proprio interno le migliori innovazioni ma chi riesce a creare prodotti e servizi innovativi modulando al meglio ciò che viene da dentro e ciò che può ricavare dai player fuori dal perimetro aziendale. Sono poche le grandi aziende che hanno una platea di risorse interne talmente ampia e funzionale da non necessitare di uno scambio con l’esterno. E anche queste si stanno rendendo conto che i contributi esterni rappresentano uno stimolo significativo e a volte essenziale.

COME METTERE IN PRATICA L’INNOVAZIONE APERTA

Le modalità concrete attraverso le quali si realizza l’open innovation possono essere molteplici. Si può fare lanciando un concorso per idee innovative, stringendo accordi di collaborazione con i partner, aprendo hub o think tank interni o facendo acquisizioni tra le realtà più interessanti. Vediamo alcune di queste modalità.

  • CALL FOR IDEAS, HACKATHON, PREMI

Sono numerose le aziende che vanno a caccia di idee innovative tra le realtà più disparate (startup, piccole e medie imprese, associazioni o anche singoli individui) utilizzando lo strumento della call for ideas, ovvero un concorso di idee solitamente rivolto a persone o imprese attive in specifici settori di mercato. L’organizzazione della call, così come il percorso, gli obiettivi prefissati e gli esiti, variano a seconda della realtà aziendale che ha lanciato il challenge. Non è escluso che gli organizzatori decidano di investire, direttamente o indirettamente, nelle realtà che hanno sviluppato le innovazioni più promettenti.

Alcune aziende possono decidere di mettere in piedi degli hackathon, gare di programmazione durante le quali chiedono a developer e programmatori di sviluppare soluzioni digitali innovative relative a un determinato settore in un arco di tempo circoscritto (24 o 48 continuative, in generale).

È anche possibile che le organizzazioni optino per l’assegnazione di premi quale metodo per individuare e dare rilievo alle realtà innovative che hanno suscitato il loro interesse e con le quali, eventualmente, intendono proseguire la relazione.

  • INCUBATORI E ACCELERATORI AZIENDALI

Per portare l’innovazione all’interno di un’impresa si può decidere di costituire incubatori o acceleratori di startup gestiti direttamente o indirettamente dall’azienda. Queste strutture hanno lo scopo di sostenere gli sforzi iniziali delle giovani società e accompagnarle nella loro crescita fornendo strumenti e spazi utili a sviluppare un business efficace. La supervisione del processo di accelerazione da parte dell’azienda può consentire una collaborazione più diretta e mirata.

  • PARTNERSHIP

Un altro percorso di open innovation riguarda la possibilità di stringere accordi con partner esterni. Possono essere accordi inter-aziendali, per cui un’impresa delega a un’altra, di solito più piccola, la creazione di determinate innovazioni o la produzione di specifici manufatti. Può trattarsi di contratti di collaborazione stipulati tra company e startup. Multinazionali e imprese possono scegliere di avviare partnership e rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca o gruppi di ricercatori. Oppure una grande azienda può allearsi con un’altra grande azienda, che magari fino a quel momento era considerata una potenziale concorrente, per raggiungere scopi comuni. In questo caso si parla di co-innovazione, paradigma dell’innovazione in base al quale nuove idee e approcci provenienti da risorse interne ed esterne sono integrate in una piattaforma per generare nuovi valori e beni condivisi da tutti gli stakeholders, compresi i consumatori.

  • ACQUISIZIONI

L’acquisizione, da parte di corporation o grandi aziende, di startup o pmi innovative è considerato uno degli strumenti principali per fare open innovation. Le aziende che rilevano la maggioranza delle quote delle nuove imprese si assicurano in un colpo solo idee, tecnologie e competenze. In diversi casi l’acquisizione comporta anche l’assunzione dei soci e/o dipendenti della startup, per mantenere una continuità con la gestione precedente e integrare nel proprio organico i talenti digitali individuati.

L’OPEN INNOVATION NEL MONDO

Le aziende internazionali più evolute hanno saputo mettere in atto efficaci strategie di open innovation. La prima regola dell’innovazione per Google è “Innovation comes from anywhere”, l’innovazione può venire da qualunque parte. In base a questo principio, il colosso del web incoraggia gli scambi con altre startup, alcune delle quali vengono acquisite direttamente o finanziate attraverso Google Ventures. Samsung, per menzionare un altro big player, ha aperto diversi open innovation center, tra cui uno proprio in Silicon Valley, nel cuore dell’innovazione mondiale. Ma ci sono stati anche casi eclatanti in cui i big hanno mancato l’appuntamento con l’innovazione aperta e hanno fallito. Kodak aveva in casa un dipendente che inventò la prima macchina fotografica digitale e gli intimò di non parlarne in giro, invece Siemens è solita attribuire un budget agli impiegati in modo che possano finanziarsi in autonomia le idee personali più innovative. Sony lanciò il primo lettore di e-book, ma Amazon prevalse con il suo Kindle, pur arrivando secondo in ordine di tempo, perché riuscì a tenere maggiormente conto dell’ecosistema che la circondava. Michelin lanciò pneumatici altamente innovativi, ma in pochi li acquistarono perché si era dimenticata di portare a bordo del progetto i garagisti, ovvero non aveva ragionato in un’ottica di filiera. A livello internazionale ci sono esempi di imprese che sono riuscite a innovarsi utilizzando nel modo più appropriato idee nate da dipendenti, collaboratori, ricercatori o startup, e altre che non hanno capito l’importanza di questa strategia o non hanno saputo applicarla.

L’OPEN INNOVATION IN ITALIA

Anche in Italia l’open innovation ha fatto proseliti tra le aziende. Un esempio interessante, riconosciuto e premiato anche all’estero, è quello di Enel, che ha ampiamente utilizzato il paradigma dell’open innovation per ripensare il proprio business. Innanzitutto ha messo al centro innovazione e sostenibilità con la creazione di una divisione dedicata per una più decisa ricaduta operativa, senza distinzioni rispetto alla pianificazione strategica generale. Inoltre in questi anni ha allacciato centinaia di partnership e intessuto varie forme di relazioni con le startup: solo nel 2016 ha avviato 80 progetti di collaborazione in molti dei 30 Paesi in cui la società è presente. In California, a Berkeley, Enel ha aperto un Innovation Hub a ridosso del Center for New Media, dopo quello di Tel Aviv aperto nel 2016, diventando così la prima azienda al mondo con cui l’Università della California stringe una collaborazione per scouting, accelerazione e collaborazione con le startup. Ma ci sono altri case study italiani di open innovation. Il Gruppo farmaceutico Dompé ha aperto un dipartimento di open innovation all’interno della ricerca e sviluppo, area sulla quale ogni anno viene già investito il 15% del fatturato (che è di circa 250milioni), con l’obiettivo di mettere a sistema le relazioni esistenti con circa 200 centri di ricerca nel mondo. Zucchetti, gruppo con sede a Lodi che produce soluzioni software e hardware per aziende, banche, assicurazioni e professionisti, ha basato da tempo la sua strategia di open innovation sull’acquisizione di startup con un approccio da hub aeroportuale: le imprese acquisite sono come le compagnie aeree che utilizzano l’aeroporto, usufruiscono dei servizi e crescono grazie alle economie di scala e alla complementarietà. Anche Cisco Italia ha scommesso con convinzione sull’innovazione aperta. Nell’ambito di Digitaliani – il piano per la digitalizzazione dell’Italia annunciato a gennaio 2016, sul quale il colosso californiano dell’IT arriverà a investire complessivamente 100 milioni di dollari entro il 2018 – rientrano partnership con player esterni e accordi di collaborazione con le startup. Nel “mondo moto”, Ducati utilizza ampiamente l’open innovation per individuare tecnologie e soluzioni in grado di aumentare la piacevolezza di guida e la sicurezza del pilota. Per esempio ha lanciato l’app Ducati Link in collaborazione con e-Novia, “fabbrica delle imprese” milanese impegnata a costituire e sviluppare società ad alto valore tecnologico, che consente al motociclista di comunicare con il proprio veicolo da remoto.

OPEN INNOVATION, LA FASE DI MATURITÀ

L’open innovation, dicevamo, ha ormai un quarto di secolo, per cui il paradigma si è evoluto con gli anni. Come ha spiegato Salomon Darwin a EconomyUp, open innovation oggi significa conoscenza che si diffonde in tutte le direzioni grazie alla rapidità, efficacia e pervasività delle nuove tecnologie. Ma è essenziale saper gestire questo flusso di conoscenza. “Tutto sta diventando sempre più digitale e guidato dal software” spiega lo studioso. “Gli asset si smaterializzano e diventano più leggeri, mobili, veloci, guidati dal machine learning. La tecnologia digitale contribuisce a velocizzare l’open innovation, dal momento che consente di risolvere i problemi in modo più veloce e partecipativo”.

Open innovation: un video

L’open innovation è una grande opportunità per le aziende, ma bisogna sapere come metterla in pratica: ci sono esempi di imprese che sono riuscite a innovarsi utilizzando nel modo più appropriato idee nate da dipendenti, collaboratori, ricercatori o startup, e altre che non hanno capito l’importanza di questa strategia o non hanno saputo applicarla. E hanno fallito.

Cos'è l'open innovation, l'innovazione che fa aprire le aziende al mondo esterno

(Articolo aggiornato al 22/01/2024)

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