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Startup, sbagliando si vince: cosa pensano del fallimento 6 top digital influencer

Negli Usa gli imprenditori considerano l’insuccesso un’occasione per imparare dai propri errori. In Italia è spesso ritenuto un marchio indelebile. Ecco cosa ne pensano alcuni grandi manager americani, dal vicepresidente di Google, Vinton Cerf, al Ceo di Uber, Travis Kalanick, fino a Richard Branson (Virgin)

Pubblicato il 28 Lug 2015

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Negli Usa ne sono profondamente convinti: le esperienze di fallimento sono necessarie per crescere. Per questo non si scandalizzano se uno startupper ha alle spalle una o più esperienze negative, anzi ritengono che potrà imparare dai propri errori. In Italia invece sono ancora in molti a pensare che un insuccesso sia una macchia praticamente indelebile nella carriera di un’imprenditore.

Uno degli ultimi  in ordine di tempo a ricordare l’importanza del “failure” per le startup è stato Brian Cohen, figura di spicco nell’ecosistema startup a New York in quanto business angel, mentor e investitore, che a luglio, dalle pagine del Corriere della Sera, ha affermato: “Il problema dell’Europa, rimasta indietro nelle tecnologie digitali, non è la mancanza di talenti. È un problema culturale: vi manca la cultura del fallimento. Pochi provano. Troppa paura di sbagliare: da voi chi fallisce è marchiato a vita. Qui, invece, riparte subito: riprova, mette a frutto la lezione appresa con l’insuccesso”. Cohen è andato oltre, sottolineando che agli europei manca anche la cultura del successo: “Se vinci la tua sfida e guadagni parecchio non vieni celebrato, vieni avvolto dal sospetto: chi sta soffrendo per colpa tua?”.

Come detto, non è l’unico a pensarla così. Altri cinque grandi imprenditori e top manager statunitensi, di cui EconomyUp ha raccolto in questi anni le dichiarazioni, hanno espresso lo stesso concetto. Eccone una breve carrellata. Per capire meglio e trarre spunto dagli insegnamenti di questi maestri, peraltro assolutamente vincenti.

  VINTON G. CERF, considerato uno dei padri di Internet in quanto co-inventore del protocollo TCP/IP e oggi, alle soglie dei 70 anni, vice presidente e “chief evangelist Internet” di Google, ha più volte parlato dell’importanza del fallimento nella vita degli imprenditori. Ecco cosa ha raccontato qualche tempo fa a un incontro pubblico in Italia presso l’incubatore di startup Luiss Enlabs di Roma.

Più di una decina di anni fa Tony Blair, allora primo ministro del Regno Unito, fu invitato da Cisco a pranzo con una decina di protagonisti dell’hi-tech Usa, tra cui noi di GoogleBlair ci chiese: ‘Come posso importare il modello della Silicon Valley a Londra?’. Si alzò una sola mano: era quella di Steve Jobs, il cofondatore di Apple, che peraltro non era solito alzare la mano per chiedere di intervenire: ‘C’è una cosa che abbiamo tutti in comune: il fallimento di almeno una delle nostre attività’ disse, e nel suo caso stava certamente pensando a Next. Questo per dire che negli Stati Uniti il fallimento è visto come un’esperienza, non un errore”.

  L’importante è fallire. Potrebbe essere il motto di BEN HOROWITZ, oggi uno dei miliardari della Silicon Valley, con investimenti in startup di alto profilo quail Airbnb e Pinterest, ma un tempo, nemmeno troppi anni fa, imprenditore costantemente sull’orlo del fallimento.

Intervistato da The VergeHorowitz ha rievocato il fallimento del 2000, quando decise di lanciare un’Ipo perLoudCloud: Businessweek la descrisse come “l’Ipo dall’inferno”. Lui ha ammesso con molta sincerità: “I fucked it up, ho sbagliato. Il terrore di essere un founder o ceo – spiega – è che è sempre colpa tua. Qualsiasi persona assumi, qualunque decisione prendi, qualsiasi cosa fai, ne paghi personalmente le conseguenze. Un ceo deve tenere in considerazione l’ecosistema macroeconomico in cui si muove e io nel 2000 non lo feci. Non capii e finii nei guai. La verità è che non ero un buon ceo”.

► Dagli insuccessi si impara che il tempismo è tutto nel business. Questo è l’insegnamento che ha tratto dalle proprie esperienze di vita TRAVIS KALANICK, ideatore e amministratore delegato di Uber, la società fornitrice dell’applicazione che permette di noleggiare auto con conducente. Al Financial Times ha raccontato l’origine della sua scalata verso l’olimpo delle startup della Silicon Valley.

Le sue prime due società non ce l’hanno fatta: Scour Inc è stata costretta a chiudere perché accusata di contravvenire alle leggi sul copyright, Red Swoosh è stata venduta per 19 milioni di dollari nel 2007. “Nella mia ultima società, quando non ho guadagnato nemmeno un centesimo per i primi quattro anni – ha affermato Travis – ho imparato in fretta che non era il momento giusto. Così diventi bravo a riconoscerlo”.

ELON MUSK, Ceo di Tesla, e sir RICHARD BRANSON, presidente di Virgin, hanno “colloquiato” tempo fa attraverso un hangout di Google+ con alcuni startupper, dispensando consigli  su come creare un’azienda.

Durante la chat sia Branson sia Musk hanno invitato i futuri imprenditori a non darsi per vinti. Per Branson, “se avete una grande idea, sviluppatela”, senza lasciarsi abbattere da eventuali fallimenti. Perché, ha spiegato Musk, “in tutte le imprese ci sono tempi difficili, generalmente subito dopo l’inizio: la situazione sembra ottimistica, rosea, eccitante per i primi sei mesi, per il primo anno. Poi le cose cominciano ad andar male”. Situazioni che anche Branson ricorda: “Ho conosciuto Elon proprio in quel periodo, e sono sorpreso che abbia ancora i capelli neri e non bianchi… ma anche alla Virgin abbiamo dovuto affrontare periodi neri. Bisogna lottare per sopravvivere, e molte aziende non sopravvivono. Se anche voi non sopravvivete, imparate dai vostri errori e ricominciate“.

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