Gianluigi Castelli, presidente Ferrovie dello Stato: “Perché le grandi aziende hanno bisogno di innovazione”

“Nelle aziende strutturate prevalgono comportamenti antitetici all’innovazione e si nega il valore formativo dell’errore: serve fiducia e collaborazione. Il CIO non deve essere il migliore, ma deve far emergere le qualità dei molti”: così dice il neo nominato ai vertici di FS in questa intervista a Ivan Ortenzi

Pubblicato il 07 Ago 2018

Gianluigi Castelli, presidente Ferrovie dello Stato

Gianluigi Castelli, già Direttore Centrale Innovazione e Sistemi Informativi di Ferrovie dello Stato Italiane, è stato nominato a fine luglio 2018 presidente della società del trasporto ferroviario italiano. Tempo prima aveva rilasciato un’intervista a Ivan OrtenziChief Innovation Evangelist di BIP (Business Integration Partners), pubblicata nel libro Innovation Manager (FrancoAngeli). Riportiamo qui di seguito l’intervista nella quale Gianluigi Castelli descrive l’esperienza di CIO (Chief Innovation Officer) e dà la sua visione sull’innovazione nelle aziende.

Gianluigi Castelli, presidente di Ferrovie dello Stato
Qual è la definizione di innovazione nella tua esperienza?

Il concetto di innovazione è associato a molte differenti interpretazioni nelle aziende e viene impiegato con finalità diverse. Per rimuovere, per quanto possibile, le ambiguità attorno esso e sulle terminologie adottate, nonché per definire le aspettative corrette per ciò che possiamo ottenere, ho adottato una semplice tassonomia a cui ricondurre la casistica: la dovuta diligenza, l’innovazione tecnologica che cambia, o addirittura crea, nuovi scenari e l’innovazione di processo o di prodotto abilitata dall’integrazione di tecnologie esistenti. La dovuta diligenza attiene alla continua revisione, evoluzione e adattamento delle infrastrutture di elaborazione e del portafoglio applicativo di un’azienda. Non farlo equivale a lasciar invecchiare e deteriorare i mezzi di produzione. Però non si tratta di innovazione, almeno nella misura in cui non si introducono nuovi modelli di business o significativi miglioramenti dei processi interni.

Come interpreti il ruolo del Chief Innovation Officer in una grande azienda?

La possibilità di operare in un contesto di dimensioni sensibili con una struttura organizzata offre opportunità per chi deve definire una strategia di evoluzione e di innovazione con grande attenzione alla componente tecnologica. L’innovazione tecnologica profonda è così la prerogativa di grandi, grandissime aziende tecnologiche: i computer quantistici, i sistemi cognitivi complessi, le reti a larghissima banda, la continua evoluzione dei microprocessori, delle memorie a stato solido e molto altro ancora, anche restando solo nell’ambito delle tecnologie digitali, richiedono miliardi di investimento ogni anno, migliaia di ricercatori di altissimo livello, in taluni casi, come nel caso dei semiconduttori, apparecchiature di produzione sofisticatissime, anch’esse del valore di miliardi di euro. È chiaro che aziende con queste caratteristiche si contano sulla punta delle dita.

Quali sono i pericoli principali per l’innovazione nelle aziende strutturate?

Il problema delle aziende strutturate è la stessa struttura che spesso si trasforma in paradigma e diventa limite allo sviluppo delle idee e dell’innovazione. L’innovazione di processo/prodotto abilitata dall’integrazione delle tecnologie esistenti è alla portata di ogni azienda, perché gli investimenti necessari sono sostenibili e le tecnologie disponibili. Ciò che conta qui è la creatività, la capacità di immaginare nuovi servizi, nuovi prodotti, nuovi processi. È così che sono nate Amazon, Uber, Facebook, MyTaxi, il car e il bike sharing: dalla convergenza e dall’integrazione tecnologica nonché dal miglioramento delle tre grandezze fisiche fondamentali del mondo digitale, la velocità di elaborazione, la capacità di memoria e l’ampiezza di banda trasmissiva. Le buone idee possono nascere dovunque: dal personale interno, dai fornitori, dalla relazione con istituti di ricerca, dalle startup. Quel che conta è la capacità di riconoscere il valore di un’idea e portarla a maturazione rapidamente, senza paura di sbagliare.

Qual è la missione del Chief Innovation Officer?

Avendo quindi ben chiari gli ambiti e la natura dell’innovazione possibile nel contesto di una data azienda, il ruolo e il perimetro d’azione di un Chief Innovation Officer e della sua struttura sono facilmente identificabili così come gli obiettivi perseguibili: il Chief Innovation Officer di successo deve avere caratteristiche di grande apertura mentale, capace di diffondere conoscenza e di far circolare le idee, di fungere da stimolo e da incoraggiatore, senza mai appropriarsi delle idee altrui, ma anzi riconoscendone il valore e la paternità in ogni occasione. L’innovazione si nutre di fiducia e di collaborazione e della capacità di sviluppare nuove idee partendo da risultati di altri.
L’ambito d’intervento è quindi simile a quello di un direttore d’orchestra: il Chief Innovation Officer non deve necessariamente essere il migliore in un qualsiasi ambito, ma deve saper far emergere le migliori qualità di una pluralità di ingegni. Non potendo essere un profondo conoscitore di ogni ambito di applicazione di soluzioni innovative è più importante che la sua migliore caratteristica sia COME innovare, piuttosto che COSA innovare. La sua organizzazione, o meglio la sua squadra, deve essere composta da persone che rifuggono dai ruoli e che coltivano piuttosto una grande capacità di approfondimento, unita a una grande capacità di attrarre divulgando.

Quali sono i pericoli principali per l’innovazione nelle aziende strutturate?

Nelle grandi aziende strutturate prevalgono comportamenti antitetici all’innovazione, sostenuti da due grandi nemici della libera circolazione delle idee: la gerarchia e l’organizzazione. La gerarchia tende a inibire l’imprenditorialità e l’assunzione di rischi da parte dei livelli gerarchicamente più bassi: da sempre nelle nostre culture aziendali l’errore viene stigmatizzato e immediatamente correlato all’incapacità di chi lo ha commesso, negandone il valore formativo in un processo di apprendimento e sviluppo. È quindi un meccanismo di difesa naturale quello che porta le persone, anche dotate di buone capacità, a non esprimersi per timore di conquistarsi quella “patente d’imbecille” che, troppo spesso, nelle nostre grandi aziende non scade mai. L’organizzazione porta le persone a identificarsi con le proprie unità organizzative di afferenza, siano queste micro o macro. Il risultato è, di nuovo, che le idee non circolano, che si detengono, ma non si condividono, competenze e conoscenze, che si limita moltissimo anche lo scambio di persone tra le organizzazioni: molti progetti di job posting sono falliti miseramente. L’eliminazione o, almeno, la riduzione di questi fattori di blocco, passa per un lungo processo di sviluppo di consapevolezza che l’assenza di assunzione di rischio, il perseverare lungo strade note e ripetute, i ritardi nel riconoscere il valore della tecnologia conduce a perdite di quote di mercato se non, addirittura, all’uscita dal mercato. Il caso di Nokia, forse il più eclatante, non è l’unico. Allo stesso modo, il voler misurare con criteri di breve, con KPI tradizionali, con il ritorno economico degli investimenti immediato, inibisce ogni forma e stimolo d’innovazione. Qualcuno ha proposto organizzazioni a due velocità, le cosiddette organizzazioni duali, ma queste non possono incidere significativamente sui comportamenti inibenti l’innovazione per mancanza di massa critica.

Perché bisogna ricorrere ad un processo d’innovazione?

Il rischio di creare contesti di disadattamento senza ricadute significative è altissimo. Ecco dunque la necessità di disporre di processi strutturati e sistemici per l’innovazione, di gruppi di lavoro che, sotto un’unica regia per quanto complessa e articolata possa essere l’organizzazione aziendale, operino in modo coerente essendo consapevoli che, anche nelle migliori organizzazioni, solo una esigua quantità di idee troverà la strada per giungere a maturazione e così produrre effettivo valore economico per l’azienda. Un ultimo elemento di riflessione riguarda infine l’ampliamento del contesto nel quale le idee possano essere generate. Se da un lato ogni grande organizzazione ha la possibilità di stimolare un grande bacino di competenze interne, dall’altro è essenziale poter attingere a una rete diversificata di generatori di idee esterna all’organizzazione aziendale, sia in modo diretto, sia mediato. La relazione diretta dovrebbe essere stabilita con centri di eccellenza nazionali e internazionali, mentre la ricerca e lo scouting di germi d’innovazione originati dall’enorme numero di start-up richiede spesso un’attività di filtraggio, svolta da organizzazioni esterne all’azienda, che riconduca le migliaia di potenziali contatti alle poche decine realmente coerenti con le strategie di business aziendali e dunque meritevoli di accedere alle risorse economiche per portare a maturazione le proposte. In maniera più mirata, ovvero per problemi specifici più precisamente individuati, il crowdsourcing estende ulteriormente, con comprovata efficacia, il bacino di competenze a cui accedere.

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