La battaglia del copyright

Siae, Ichino (Pd): due terzi degli iscritti ci chiedono la fine del monopolio

Il senatore ha preparato con Laura Puppato e Serenella Fuksia un emendamento alla legge 2345/2016 per accelerare il recepimento della direttiva Barnier per la liberalizzazione dei diritti d’autore. “Non ce lo chiede solo l’Europa. La maggioranza degli artisti ricava meno del costo dell’iscrizione”

Pubblicato il 01 Giu 2016

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Pietro Ichino

È un accerchiamento di giorno in giorno più serrato quello intorno al monopolio Siae. Dopo il passaggio di Fedez e Gigi d’Alessio alla startup Soundreef, dopo che un’altra startup, Patamu, ha annunciato di volersi proporre in Italia come società di intermediazione per i diritti d’autore, l’ennesimo colpo proviene dritto dritto dal Parlamento italiano. Lo stanno sferrando Laura Puppato e Pietro Ichino, senatori Pd e la senatrice ex M5S, adesso Gruppo Misto, Serenella Fuksia, ossia i primi firmatari di un emendamento alla legge 2345/2016, che delega al governo il recepimento della direttiva europea Barnier che ha de facto liberalizzato il mercato dei diritti d’autore in Europa. “Ce lo impone l’Europa, ma ce lo chiedono anche i due terzi di autori iscritti alla Siae che ricavano meno di quanto costi l’iscrizione – commenta il giuslavorista e senatore Pd, Ichino – Sono soprattutto loro a pagare il costo di una gestione gravemente inefficiente e del tutto opaca”.

L’emendamento, che dovrà essere presentato entro il 7 giugno, è stato scritto in tre versioni. Quella più dura

Laura Puppato

prevede che gli autori possano affidare la gestione dei propri diritti “a uno o più organismi liberamente scelti, indipendentemente dallo Stato membro di nazionalità, di residenza o di stabilimento proprio o dell’organismo medesimo”. Così si aprirebbero le porte alla libera concorrenza a società straniere, come già Soundreef, e italiane, mettendo in regola Patamu e le altre che volessero intraprendere l’impresa. L’emendamento “b” si ferma a “liberamente scelti”, dando così agli autori la facoltà di decidere ma lasciando aperta la strada per inserire paletti al mercato, mentre l’ultima versione apre alla concorrenza italiana ma aggiunge alcune norme per le imprese, come il rispetto della “normativa nazionale”, la “trasparenza annuale per gli organismi di gestione collettiva” o l’obbligo di “mettere a disposizione degli utenti, con cadenza annuale, le informazioni concernenti la gestione dei loro diritti”.

Tre versioni che, con maggiore o minore impatto, andrebbero comunque a demolire il monopolio che dura da 70 anni. “La sottrazione del servizio di protezione dei diritti d’autore al regime di libera concorrenza non ha alcuna seria giustificazione. – continua Ichino – In ogni caso, dall’aprile scorso la permanenza in vita di questo nostro regime viola platealmente l’ordinamento europeo. D’altra parte, se la Siae offrisse davvero agli autori un servizio efficientissimo e relativamente poco costoso, essa non avrebbe nulla da temere dalla liberalizzazione: con il vantaggio di partenza di cui gode, non perderebbe alcun iscritto. La verità è che la Siae sa benissimo che la liberalizzazione la costringerebbe ad attuare una profonda ristrutturazione, eliminando gli sprechi enormi che oggi caratterizzano la sua gestione”.

Tutto quello che bisogna sapere per capire lo scandalo Siae

Sul tema il Parlamento ha già chiamato a rispondere il ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini, secondo il quale la direttiva Barnier non obbliga a introdurre la concorrenza nel sistema Italia e al massimo chiama a una riforma della Siae “che tutto il mondo ci invidia”: “Il ministro si è dimostrato preoccupato per il rischio di favorire una deregolamentazione selvaggia, dove le nuove imprese potrebbero avvantaggiarsene sulla pelle degli autori. Allora, diciamo noi, inseriamole queste garanzie e facciamole rispettare. L’Antitrust potrebbe essere l’organo preposto al controllo. Ma questo timore, seppur giustificato, non può impedire l’apertura alla concorrenza” dice a Economyup Laura Puppato, senatrice PD prima firmataria dell’emendamento. Puppato e Fuksia hanno presentato anche due interrogazioni parlamentari rivolte al ministro Franceschini, in cui si elencano i motivi per cui il recepimento della Barnier debba essere prioritario: “Sono gli stessi iscritti Siae a chiederlo. – continua Puppato – In forza dell’attuale statuto della società, la governance dell’ente è retta da un meccanismo di voto per censo, secondo il quale godono di maggiori diritti coloro che ricevono compensi più alti, con la conseguenza che ad essere meno rappresentati sono gli attori più deboli”. Entrare in Siae se non sei già un autore affermato, e quindi fai parte dei due terzi degli iscritti in perdita, non conviene affatto. Il giudizio sull’operato Siae non cambia nemmeno se lo si guarda dal lato finanziario: “Nel 2010 la Siae costava 23 milioni di euro in più di quelli che produceva, mentre nel 2014 è costata quasi 27 milioni di euro in più di quelli che ha prodotto. – prosegue l’interrogazione – Prima del commissariamento (nel 2012, ndr) la società produceva quasi 177 milioni di euro, spendendone circa 200, mentre, nel 2015, ha prodotto 155 milioni di euro, spendendone 182”.

Le due interrogazioni parlamentari sono state firmate da parlamentari del Pd, del Gruppo Misto, di Sel, Ala, Forza Italia e Lega Nord. Un ampio consesso parlamentare pronto a battersi in aula: “Dopo le elezioni ci rivedremo con il mio partito e con il ministro per confrontarci. Se faremo un bel lavoro in Commissione la partita in aula sarà più leggera” confida Puppato. Comunque andrà, i motivi per cui l’Italia avrebbe bisogno della direttiva Barnier sembrano molti e validi. “Con il nuovo presidente, Sugar, la gestione della Siae è migliorata e nella sua audizione alla Camera ha offerto alcuni elementi di novità che fanno ben sperare. Noi siamo contenti, perché il nostro obiettivo non è affossare la Saie. Noi vogliamo che ci sia un libero mercato, con delle regole e con un organismo di controllo. – conclude Puppato – Gli strumenti ce li abbiamo e li stiamo usando con i fondi pensione, per esempio. Perché non possiamo farlo con i diritti d’autore?”.

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