Scenari

Venture capital, Di Camillo (P101): «Italia indietro ma questa è l’opportunità»

«Da noi circola un millesimo del capitale di rischio degli Usa, ma e-commerce e digital advertising crescono» dice il founder della Sgr che in occasione dell’Investors Meeting ha tracciato un quadro del mercato. Nel 2015 il fondo ha investito 7,4 milioni di euro

Pubblicato il 18 Apr 2016

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“In Italia, sul venture capital, partiamo da una situazione arretrata, ma questo nasconde una grande opportunità”. È la visione ottimistica di Andrea Di Camillo, founder di P101, trasmessa agli investitori in occasione dell’Investors Meeting del fondo di venture capital, prima sicaf eterogestita, a Milano lo scorso 13 aprile.

All’incontro, al quale ha partecipato anche un gruppo di investitori internazionali (Virgin Ventures, che fa capo alla Virgin di Richard Branson, Iris Capital, Ardian, Microsoft Ventures e Joint Capital di Berlino), sono state fornite le coordinate del lavoro di P101. Nel 2015 sono stati investiti 7,4 milioni di euro: 3,7 in 5 nuove startup (Quadro, Deporvillae, eBoox, Musement e Octorate) e 3,7 in 11 operazioni di follow on. Dall’inizio dell’attività, due anni fa, P101 ha effettuato investimenti diretti per 13,9 milioni di euro su 18 startup e preso impegni finanziari pari a ulteriori 11,7 milioni di euro. Negli ultimi mesi sono stati individuati cinque nuovi investimenti: uno, l’unico già finalizzato nel primo trimestre 2016, è quello sulla startup Snap. Gli altri quattro sono in fase di finalizzazione e dovrebbero chiudersi nel corso del 2016. L’obiettivo di raccolta complessivo è 70 milioni di euro. “Nel 2015 – dice Di Camillo – abbiamo ridotto il numero di investimenti e scelto di puntare sulla qualità. Le nostre società stanno crescendo e al momento occupano circa 400 persone. Abbiamo meso le basi per rafforzare il network di professionisti e collaborazioni, anche internazionali, di P101 finalizzate a supportare il gestore e società di portafoglio nel loro processo di internazionalizzazione sia di mercato sia di raccolta degli eventuali e ulteriori capitali”.

Il meeting è stato anche l’occasione per delineare lo scenario internazionale del venture capital: scenario che, naturalmente, vede gli Usa al top per investimenti in capitale di rischio, l’Europa con buoni numeri e l’Italia che arranca, con cifre estremamente ridotte rispetto ai big, ma anche a tanti altri Paesi europei.

Eppure qualcosa si muove da noi, perché, come rileva Di Camillo, “in Italia dal 2014 al 2014 sono raddoppiati gli investimenti VC”, passando da 43 a 74 milioni di euro, nonostante “il divario con le altre economie sia ancora evidente”.

Prendendo in considerazione l’arco temporale 2011-2015, negli Usa si è passati da 37,6 miliardi di dollari a 74,2 miliardi investiti in VC. Una crescita incalzante che è andata di pari passo con quella del numero degli investimenti fino al 2014. Dal 2011 al 2014, infatti, sono saliti da 4260 a 5.460, per poi scendere a 4.890 nel 2015.

Anche in Europa il venture capital continua a crescere e rafforzarsi, pur se in misura molto minore rispetto al Paese dove in pratica è nato e dove è nata la Silicon Valley. Dal 2011 al 2015 gli investimenti sono passati da 5,1 miliardi di dollari a 13,4 miliardi di dollari. Ugualmente è aumentato il numero degli investimenti: da 746 a 1387.

L’Europa inoltre mostra segni di vitalità rispetto alla “maturità” del venture capital statunitense. Negli ultimi due anni in Europa le exit sono cresciute del 314% rispetto agli Usa, dove il tasso di crescita è del 46%.

L’Italia è decisamente un nano tra i giganti: nel Paese circola un millesimo del venture capital degli Stati Uniti. Inoltre da noi il VC non ha registrato una crescita lineare. Si è passati dagli 82 milioni di euro di investimenti in VC nel 2011, ai 136 del 2012, per poi piombare agli 81 del 2013, scendere bruscamente ai 43 milioni del 2014 e quasi raddoppiare chiudendo il 2015 con 74 milioni di finanziamenti in capitale di rischio. Altalenante anche il numero degli investimenti effettuati: nel 2011 erano 106, nel 2015 sono arrivati a 122, ma l’anno precedenti erano scesi a 106.

Solo per fare un raffronto, se l’Italia ha chiuso il 2015 con 74 milioni di euro di VC, ad Austin, in Texas, soltanto nel quarto trimestre di quell’anno, gli investimenti in venture capital sono ammontati a 145 milioni di dollari. Come dire che il VC di un Paese europeo di 62 milioni di abitanti vale meno della metà di quello di una città americana.

Un quadro sconfortante? Non del tutto. Di Camillo è convinto che, proprio a causa di questa situazione, ci siano ampi per margini per futuri miglioramenti. E sottolinea alcuni segnali positivi. La crescita dell’e-commerce, per esempio. È vero che siamo ampiamente sotto la media europea per percentuale di vendite retail online. Tuttavia il valore delle vendite dei siti web italiani risulta in costante crescita dal 2009, quando ammontava a 6,6 miliardi di fatturato, al 2016, quando ha toccato i 19,5 miliardi. “C’è ancora molto spazio di azione in questo campo” dice il founder di P101.

Anche il digital advertising in Italia sta crescendo a ritmi sostenuti. Da meno di un miliardo di euro di fatturato nel 2008 ai 2,15 miliardi nel 2015.

Per incentivare la diffusione del venture capital in Italia occorrerebbe, tra le altre cose, un piano di education. “A volte quello che facciamo risulta oscuro – rileva Di Camillo – oppure si pensa che le startup siano quattro ragazzi che, senza grandi mezzi e in poco tempo, mettono in piedi realtà stellari come Facebook. In realtà non è così: oggi ci sono trend tecnologici che consentono di mettere in piedi grandi aziende. L’investimento su queste realtà è una cosa estremamente serie e non improvvisata”.

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