Che cos’è la sharing economy e perché è il ponte fra aziende e startup

Ivana Pais, docente di sociologia economica e organizzatrice di Sharitaly, spiega il nuovo modello, basato su tre elementi: la condivisione, la relazione orizzontale tra organizzazioni, una piattaforma tecnologica

Pubblicato il 26 Nov 2013

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Ivana Pais, docente di sociologia economica all’Università Cattolica di Milano e organizzatrice di Sharitaly, il primo evento dedicato all’economia collaborativa in Italia

“La sharing economy può essere un ponte importante tra le aziende e le startup, ma a patto che le imprese tradizionali vedano in questo modello economico un’opportunità e non una minaccia”. Parola di Ivana Pais, docente di sociologia economica all’Università Cattolica di Milano e organizzatrice di Sharitaly, il primo evento dedicato all’economia collaborativa in Italia in programma il 29 novembre.

Secondo Pais, che EconomyUp.it ha incontrato durante una colazione tematica organizzata dall’acceleratore Working Capital a Milano, la condivisione di oggetti, luoghi di produzione, competenze, servizi e risorse non è più soltanto un fenomeno nato come risposta alla crisi ma si avvia verso una fase più matura nella quale alcune esigenze dei cittadini non possono essere più soddisfatte – e il discorso vale anche per la realtà italiana – al di fuori di un contesto collaborativo e di condivisione. Non si tratta quindi soltanto di risparmio ma anche di un modo per rispondere ai bisogni di ridurre l’impatto ambientale, di accedere a forme di socialità altrimenti inaccessibili e di sentirsi protagonisti del ciclo economico non solo come consumatori.

Ma cos’è la sharing economy? La docente, che è anche autrice del libro “La rete che lavora – Mestieri e professioni nell’era digitale”, individua tre tratti distintivi: la condivisione, intesa come l’utilizzo comune di una risorsa; la relazione orizzontale (peer-to-peer) tra persone (o organizzazioni) in cui i confini tra finanziatore, produttore e consumatore vengono meno; la presenza di una piattaforma tecnologica che organizza queste relazioni digitali, che possono essere supportate e alimentate solo grazie alla fiducia generata da sistemi di reputazione digitale.

Le forme dell’economia della condivisione sono lo sharing in senso stretto (condividere l’auto, la casa, il luogo di lavoro, l’abbigliamento, i prodotti digitali), il crowding (pratiche come il crowfunding e il crowdsourcing), il bartering (il baratto tra privati o aziende) e il making (il movimento dei makers e la riscoperta del fai-da-te). Il denaro e l’acquisto non sono più gli elementi cardine delle transazioni e il concetto di proprietà viene ridiscusso. Al centro ci sono il benessere sociale, il consumo consapevole, il risparmio e la riduzione degli sprechi.

In Italia questo modello si sta diffondendo con sempre maggiore intensità e sta dando vita a numerose esperienze promettenti, sia provenienti dall’estero (per esempio, Airbnb) che nate direttamente nel nostro Paese (iFoodShare, Fubles, solo per citarne alcune). Si tratta di capire però fino a che punto questa tendenza possa rappresentare un vantaggio per il sistema produttivo italiano. Ecco cosa ne pensa Ivana Pais.

Perché la sharing economy rappresenta un’opportunità per le grandi aziende e per le Pmi italiane?
“Attraverso questo approccio le imprese che operano in business tradizionali possono intercettare alcuni bisogni ormai consolidati dei consumatori, tra cui l’aspettativa di relazioni alla pari anche in ambito economico. Le persone sentono la necessità di interagire con le aziende con modalità che siano meno verticali e meno top-down”.

Che ruolo possono giocare in questo contesto le start up? La sharing economy può favorire una maggiore sinergia di queste ultime con le aziende tradizionali?
“Tanto le grandi aziende quanto le Pmi hanno difficoltà a posizionarsi all’interno di questo nuovo paradigma. Molte start up invece già nascono secondo questo modello collaborativo. E in particolare quelle che sviluppano le piattaforme digitali che permettono questo tipo di interazioni possono essere utilissime alle imprese. Così, ne possono nascere di partnership: le aziende tradizionali puntano sulle start up per approcciarsi a questa nuova cultura e le start up hanno l’opportunità di accedere a nuovi mercati”.

Qualche esempio di interazione?
“Potrei citare Fubles, la community per cercare compagni per le partite da calcetto. Oltre a una collaborazione con Adidas, ha ricevuto un importante finanziamento da Renzo Rosso, che è entrato nel capitale della start up e ha dato vita a una sponsorship congiunta: gli utenti della piattaforma possono essere potenziali acquirenti dei capi Diesel. Un altro esempio è la collaborazione tra Barilla e Gnammo, la piattaforma per organizzare cene in casa”

Ci possono essere opportunità specifiche per le Pmi?
“Certo. Potrei menzionare il caso di Slowd, una piattaforma che permette a chi vuole acquistare un oggetto di design made in Italy di acquistarlo e di farselo produrre dall’artigiano più vicino in modalità a km zero. Ma ci sono e si possono immaginare possibilità di applicazione in ogni settore: basta considerare i modelli di condivisione una risorsa per innovare il proprio business e non una minaccia”.

Come individuare aree in cui si possono applicare questi modelli?
“Teoricamente, può nascere un sistema del genere in tutti i campi in cui le risorse non sono sfruttate a pieno e in modo efficiente. Pensiamo ai trasporti: con il tir sharing si è fatto in modo che i tir che viaggiavano vacanti dopo aver consegnato la merce potessero trasportare merce da altre aziende. Facendo ragionamenti del genere, possono nascere molte idee”.

Perché allora molte aziende italiane hanno ancora resistenze verso l’economia della condivisione?
“I motivi sono sostanzialmente tre. Il primo è l’ignoranza, nel senso che ci sono tante aziende che ancora non conoscono questo fenomeno. Il secondo è la paura di perdere il controllo sul proprio business: la condivisione è molto orizzontale e poco verticale, quindi più difficile da gestire in modo tradizionale. Il terzo è il timore che queste formule rappresentino un danno per la propria attività, mentre spesso è un’opportunità da cogliere. Alcuni studi, soprattutto nell’ambito turistico, dimostrano che il valore economico creato da aziende attive nella sharing economy, può essere anche maggiore di quello distrutto facendo concorrenza ai business tradizionali: per esempio, se Airbnb ha messo in crisi gli alberghi a 2 e 3 stelle, dall’altra parte ha fatto crescere i b&b e i privati, sia nei centri che nelle periferie”.

Da studiosa della sharing economy lei dice che comunque non bisogna farsi prendere da facili entusiasmi e andarci cauti. Perché?
“Quando entra in scena un nuovo modello culturale ed economico, c’è sempre chi pensa che possa avere un impatto rivoluzionario e soppiantare tutto il vecchio. La sharing economy non eliminerà ovviamente l’economia tradizionale, così come la new economy delle dotcom non ha fatto fuori la manifattura. Credo che si debba pensare a queste innovazioni nelle relazioni come a modelli complementari, che si vanno ad affiancare a quelli esistenti e possono portare benefici sociali ed economici anche importanti”.

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