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Perché nessuno pensa a investire sulle re-startup?

Ma cosa sono le re-startup? Carlo Pelanda, politologo ed economista, sul quotidiano MF definisce così quelle migliaia di Pmi che hanno tecnologia e brevetti ma soffrono. Un’opportunità, dice, per gli investitori. Perché si tratta di aziende che sono già sul mercato e in questo momento le famiglie proprietarie sono disposte a cedere il controllo

Pubblicato il 10 Apr 2015

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C’è in Italia un’opportunità che gli investitori non vedono ancora. E si chiama “re-startup”. Lo sostiene Carlo Pelanda, politologo ed economista, in un intervento pubblicato venerdì 10 aprile sul quotidiano MF.

Che cosa sono le “re-startup”? «In Italia ci sono migliaia di piccole aziende, tra i 5 ed i 20 milioni di ricavi, dotate di tecnologia e knowhow esclusivi che stanno soffrendo, e molte sono destinate a chiudere,perché o non riescono a ottenere abbastanza credito o perché la famiglia proprietaria ha problemi nel rinnovare la governance, oppure non sono ben managerializzate. Il Paese è il più grande giacimento al mondo, nelle contingenze, di potenziali re-startup a disposizione dei fondi di investimento».

Pelanda, che insegna Economia a Roma e Affari Internazionali all’Università della Georgia negli Stati Uniti, sostiene che in questo momento ci sia un’opportunità perché “un numero crescente di famiglie proprietarie di tali aziende, tipicamente ostili all’idea di perdere il controllo, si mostra disponibile a cederle a forte sconto. Nei bilanci di queste imprese non emerge il valore del know-how, a causa della prassi di non capitalizzare (quindi non includere nel capex), ma di mettere a costo (quindi includere nelle spese operative), gli investimenti in ricerca e sviluppo». E aggiunge: «La maggior parte di queste aziende, pur sofferenti, sono ancora vive e da tempo sul mercato con risultati rilevanti e non troppo remoti nel tempo. I dati mostrano che molte sono in difficoltà più per problemi di accesso al credito e alle garanzie finanziarie verso clienti che non per la perdita della capacità di stare sul mercato. Inoltre, da alcune esperienze di investimenti recenti si osserva che in questo tipo di aziende spesso è sufficiente inserire manager e schemi organizzativi adeguati per rimetterle a posto».

Pelanda, che dice di non voler mettere le re-startup in concorrenza con le startup, scrive però: «Trovo sorprendente che in questo periodo ci siano tanti nuovi fondi in raccolta di capitale per investimenti in startup e, mi sembra, nessuno o pochissimi fondi di venture capital o turnaround disposti a investire nelle re-startup che, se dotate di buona tecnologia, hanno il vantaggio di essere già sul mercato e di poter produrre innovazioni competitive da una piattaforma consolidata. Una startup presenta tipicamente il rischio che le occorre molto tempo per entrare sul mercato, e anche quello di non riuscirci affatto».

Un’analisi quella di Pelanda che merita attenzione e approfondimenti.

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