Impariamo a seguire lo S.T.I.L.E. dei giovani
Socialità, Trasparenza, Immediatezza, Libertà, Esperienza: sono gli ingredienti del paradigma della Generazione 2.0 a cui Federico Capeci, managing director di Duepuntozero Research, ha dedicato un libro. Qui ci spiega perché seguirlo può solo fare bene. Anche alle aziende
di Federico Capeci
Pubblicato il 09 Giu 2014
I giovani in Italia, per molti aspetti più di altri paesi, sono i giovani “senza”: senza il concetto di tempo, di spazio, di geografie, senza limiti sociali e di comunicazione. Questo è il grande patrimonio che ha dato loro il web, quando, adolescenti, stavano crescendo e affermando la propria identità. Sono anche, tuttavia, i giovani del senza casa: solo un 18-30enne su 4 vive da solo, fuori dalla famiglia; senza numeri: sono solo il 14% di una popolazione come quella italiana che è la più vecchia al mondo; senza cose: hanno un concetto tutto proprio della proprietà, al quale stanno contrapponendo la sharing economy (vedi collaboriamo.org); senza lavoro: il tasso di disoccupazione giovanile in Italia si avvicina oramai al 50%. Quest’ultimo punto è quello che più deprime, in un quadro già sufficientemente drammatizzato dai media, che non mancano di etichettare questi giovani come svogliati, incompetenti, senza mordente.

Se applichiamo il paradigma dello S.T.I.L.E. forse riusciamo ad intravedere nuove opportunità anche sul fronte occupazionale. Guardare ai giovani con gli occhi del passato significa occuparsi di normare i contratti a progetto o di apprendistato, cercare di fare il passo allo S.T.I.L.E. significa studiare nuove forme di collaborazione tra giovani e mondo aziendale. Intanto significa comprendere ciò a cui loro danno peso, nella scelta di un datore di lavoro: è la prima generazione nella storia che mette la meritocrazia al primo posto tra i valori che un datore di lavoro dovrebbe avere, più importante di lavoro fisso e stipendio. È una generazione che chiede fiducia ma nello stesso tempo ci obbliga a spendere tempo nel feedback, nella condivisione delle strategie d’impresa, delle ragioni per le quali si fanno delle scelte. E poi c’è il concetto del work sharing, che rischia di rappresentare una nuova modalità con cui poter valorizzare la nuova “web forma mentis” nel posto di lavoro: si tratta di provare a immaginare (per poi definire, normare, tutelare) nuove forme contrattuali di collaborazione che prescindono dal posto fisso di lavoro, per una singola azienda. Work sharing significa, per il giovane, mettere a disposizione i propri talenti per progetti specifici, definiti nel tempo e negli scopi, misurati nel raggiungimento degli obiettivi. Ma attenzione, non si parla di contratti a progetto o di furbe forme contrattuali che vedono la flessibilità come una modalità per ridurre il costo del lavoro. Si tratta di applicare lo S.T.I.L.E. al mondo del lavoro, in un modo che forse ad oggi è ancora tutto da inventare, ma che potrebbe liberare le energie dei giovani e stimolare la crescita delle nostre aziende.