Il problema di Amazon? L’assenza di una leadership responsabile

“I top manager di un’azienda devono motivare e incoraggiare i dipendenti perché incarnino i valori dell’azienda stessa” dice Ferdinando Pennarola, docente di Sistemi informativi e organizzazione aziendale alla Bocconi. Ma puntualizza: “Il colosso di Seattle non può che lavorare in un certo modo per garantire sicurezza ed efficienza”

Pubblicato il 18 Ago 2015

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Ferdinando Pennarola, Professore Associato di Sistemi informativi e organizzazione aziendale al Dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi di Milano

“Il problema di Amazon? L’assenza di una leadership responsabile. I top manager di una grande azienda devono fare in modo che i dipendenti incarnino e trasmettino i valori dell’azienda stessa. Episodi di malcontento e discriminazione possono essere la punta di iceberg: significa che qualcosa non va”. Ferdinando Pennarola, Professore Associato di Sistemi informativi e organizzazione aziendale al Dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi di Milano, così analizza il caso Amazon, accusata dal New York Times di essere un posto di lavoro infernale. “Certo sull’inchiesta ci sono dei punti poco approfonditi: si parla di pareri dati da molti lavoratori. Ma quanti? Amazon ha 154mila dipendenti. Possiamo parlare davvero di un’indagine numericamente rappresentativa?

Eppure non è la prima volta che Amazon finisce sui giornali proprio per questo motivo.
No, e su questo punto ho una mia personale idea. Nel 1999 è stato pubblicato il libro Schiavi della Rete che possiamo considerare precursore dei tempi. Agli albori dell’internet commerciale, l’autore sosteneva che nell’economia digitale c’erano tanti lavoratori che svolgevano dei lavori terribili e che venivano trattati come schiavi perché non c’erano altre soluzioni a un certo modo di lavorare. Visione, questa, non lontana dalla realtà attuale: ci sono mestieri in cui l’uomo non è ancora stato sostituito da robot e macchine e si trova a lavorare a ciclo continuo. Ora, guardiamo al caso di Amazon: immaginiamo un’azienda che guadagna 89 miliardi di dollari spedendo pacchi in tutto il mondo e alla forza lavoro di cui ha bisogno per questo tipo di attività. In questa catena lavorativa, la filosofia dell’azienda è controllare tutto nei minimi dettagli, filosofia attaccata nell’inchiesta del New York Times ma che io personalmente condivido, perché non ci sono altre soluzioni e perché altrimenti non si riesce a garantire sicurezza ed efficienza. Racconto un episodio: tempo fa ho comprato una macchina fotografica, non su Amazon ma sempre via ecommerce. Ho ricevuto scatola, fattura ma niente macchina fotografica. C’era stato evidentemente un comportamento doloso da parte di componente del personale. È proprio per evitare episodi di questo tipo che l’azienda deve esercitare un certo tipo di controllo sui dipendenti.

Controllo che però può generare anche stress. E, secondo molte teorie, i lavoratori non stressati, quelli che sono incoraggiati e motivati lavorano meglio e producono di più. Lei cosa ne pensa?
Negli ambienti di lavoro esistono fattori motivanti e fattori igienici. Faccio un esempio: l’aria condizionata. È un elemento che ormai diamo per scontato in qualsiasi ambiente lavorativo. Certo non è un fattore che può stimolare o motivare un dipendente, ma senza l’aria condizionata non lavoreremmo bene. È, questo, un tipo di fattore igienico. I fattori motivanti, invece, sono il feedback che si dà alle persone, il riconoscimento per gli obiettivi raggiunti, l’incoraggiamento a fare bene e meglio. E sono valori trasmessi da un leader responsabile, figura nella quale Amazon dovrebbe investire.

Esistono aziende che possiamo definire paradisi lavorativi?
Sono quelle in cui c’è appunto un cocktail di fattori motivanti e igienici. E quelle che hanno alla base del rapporto lavorativo il feedback tra datore di lavoro e dipendente.

Esempi?
In contraddizione con l’inchiesta del New York Times, nella classifica di Fortune sulle aziende più ammirate Amazon è la quarta a livello mondiale e, nella sottocategoria della gestione del personale, è al terzo posto. Queste contrapposizioni si spiegano con le diverse metodologie utilizzate nella raccolta dei dati. Non a caso Bezos si è difeso dicendo che se fosse tutto vero i dipendenti sarebbero pazzi a rimanere lì. Ripeto bisogna guardare i numeri: se parliamo di pochi dipendenti insoddisfatti è un conto, se parliamo di grosse cifre c’è invece un problema aziendale. Tornando alla classifica, spiccano poi Apple e Google.

Aziende italiane?
Gli italiani non finiscono mai in queste classifiche: le nostre aziende sono decisamente ridotte rispetto ai colossi presi in considerazione per questi studi.

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