Le imprese italiane sono più innovative, ma le risorse e il lavoro diminuiscono

Secondo il Rapporto Annuale Istat 2014, in Italia c’è un maggiore grado di concorrenza sul mercato e i tempi per aprire un’attività si sono ridotti a 6 giorni. I senza lavoro sono però oltre 6 milioni e più del 40% delle aziende ammette che il problema principale è di carattere finanziario

Pubblicato il 30 Mag 2014

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Più concorrenza, tempi brevi per aprire un’attività imprenditoriale, alta propensione all’innovazione. A ben vedere, il Rapporto annuale Istat 2014 contiene anche alcune buone notizie sulla situazione del sistema produttivo italiano. Stando al documento pubblicato in settimana dall’Istituto di Statistica, negli ultimi anni la posizione dell’Italia è migliorata in molti indicatori di competitività, anche se il gap con i nostri principali concorrenti resta.

Partiamo proprio dal grado di concorrenzialità del mercato. Le misure di liberalizzazione introdotte dal governo Monti nel 2011 sembrano avere migliorato il contesto economico in cui si muovono le imprese italiane. L’indicatore Ocse che misura il livello di regolamentazione del mercato è infatti diminuito nel corso degli anni, e nel 2013 è inferiore a quello della media dei Paesi Ocse e Ue, e non lontano da quello delle maggiori economie europee. Se la misura dell’Italia, in una scala da 0 a 6, è 1,26 (nel 2008 era 1,49), quelle di Francia e Spagna sono superiori (rispettivamente 1,43 e 1,45) e quelle di Germania e Regno Unito sono di poco inferiori (1,21 e 1,09).

Un altro dato che potrebbe sorprendere riguarda i tempi necessari all’avvio di un’impresa in Italia. Nonostante i piagnistei, i numeri dicono che per aprire un’azienda occorrono in media sei, contro i 12 e più del virtuoso Regno Unito: nessuno tra i principali competitor europei riesce a fare di meglio.

Se guardiamo all’approccio con cui è stata affrontata la crisi, scopriamo che molte imprese (il 70,5%) hanno adottato strategie difensive cercando di tutelare la propria quota di mercato ma allo stesso tempo una buona parte delle aziende, anche di dimensione piccola e media, ha tentato di potenziarsi sulla qualità ampliando la gamma di prodotti e servizi offerti (41,1% dei casi), esplorando nuovi mercati (22,2%) o incrementando le collaborazioni con altre imprese (11,7%).

Una dimostrazione di questo dinamismo, attivato dai Piccoli anche in periodi di piena recessione, arriva dall’incidenza delle Pmi sull’export: se le grandi imprese pesano sulle esportazioni per il 46% (contro il 58 e il 59% di Francia e Germania), il contributo delle piccole e medie aziende raggiunge complessivamente quota 47%.

Incoraggiante, poi, è la propensione a introdurre innovazione nel sistema. Benché la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) sia stata pari nel 2011 all’1,25% del Pil (contro una media Ue del 2,1% e lontano dall’obiettivo dell’1,53% definito dalla strategia Europa 2020), l’Italia ricorre con maggiore frequenza rispetto ad altri partner europei a investimenti in macchinari e impianti innovativi: sempre di innovazione si tratta.

Ma veniamo alle note dolenti, che purtroppo non mancano. Sui numeri drammatici relativi all’occupazione si è scritto già tanto: il numero dei disoccupati è raddoppiato dall’inizio della crisi, ci sono 6,3 milioni di persone “potenzialmente impiegabili” (la somma dei 3,1 milioni di disoccupati e dei 3,2 milioni di inattivi più vicini al mercato del lavoro), il numero di scoraggiati (1,4 milioni) e di Neet (2,4 milioni) è aumentato.

Ognuno di questi dati riflette però un malessere che è prima di tutto avvertito dalle aziende. Basterebbe un numero a sintetizzare tutto: nel 2013, solo 3 imprese su 10 hanno aumentato occupazione e fatturato. Ma c’è di più. Ci sono tutte le contraddizioni e i ritardi che rendono difficoltoso il fare impresa in Italia. Se è vero, come abbiamo visto, che non servono molti giorni per iniziare un’attività, lo stesso discorso non si può fare per i costi: avviare un’azienda in Italia è di oltre il 50% più oneroso rispetto alla Germania, più del triplo rispetto alla Spagna e alla media Ue, quasi 16 volte rispetto Francia e oltre 47 volte (!) rispetto al Regno Unito.

Un altro ostacolo ormai cronico riguarda i tempi della giustizia civile, che sono tre volte superiori rispetto alla media dei paesi Ocse e dell’Unione europea. Per non parlare della burocrazia, indicata tra i principali fattori frenanti da circa il 34% delle imprese con almeno tre addetti. Se le pastoie burocratiche sono un impedimento, la situazione finanziaria è un vero e proprio dramma. Secondo più del 40% delle imprese non avere sufficienti risorse finanziarie (si legga: accedere con difficoltà al credito) è il problema più pressante.

Notizie non rassicuranti arrivano anche dalla configurazione delle imprese e dai modelli di gestione applicati: in oltre il 90% delle imprese, il socio principale è una persona fisica, nell’81,4% dei casi la gestione aziendale è affidata direttamente ai membri della famiglia proprietaria o controllante e solo il 5% ha una gestione manageriale. Per quanto possano essere “illuminati” gli imprenditori, le imprese hanno bisogno di dirigenti in grado di guidare le imprese con metodi scientifici e all’avanguardia. Finché ci si affida al fiuto dei soli capitani d’azienda, il sistema non potrà che restare debole.

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