Chiesa e Innovazione

Sergio Pillon: “Nel 2014 il Papa apra un blog”

L’esperto di digitale: “Sogno un Pontefice che mette ‘like’ su Facebook”. Sulla gestione di testi e immagini: “Un enorme patrimonio non sfruttato sul web”. Ma qualcosa si muove: nasce la prima agenzia di advertising etico online. Che potrebbe creare qualche problema a Google

Pubblicato il 01 Gen 2014

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Sergio Pillon

Una migliore presenza sui social network e su Internet, un miglior utilizzo di Wikipedia, l’advertising online da gestire in proprio in alternativa a Google e, perché no, un blog a firma di Papa Francesco per dialogare in modo più informale e interattivo con i fedeli di tutto il mondo: è la strategia comunicativa che la Chiesa del 2014 dovrebbe avere secondo Sergio Pillon, direttore dell’unità operativa di Telemedicina del San Camillo-Forlanini di Roma e tra i primi divulgatori del digitale in Italia. “Il mondo ecclesiastico sta esplorando il web e le nuove tecnologie, ma le sue vere potenzialità sono ancora sconosciute, ignorate o sottovalutate da sacerdoti e laici impegnati in questo ambito, invece ci sarebbe bisogno di sempre maggiore innovazione” dice Pillon, autore tra l’altro con padre Giulio Albanese del saggio “Cliccate e troverete, un missionario e un esploratore a spasso nella Rete” (Infinito Edizioni).

Eppure Papa Francesco sembra aver portato un vento di novità anche nella comunicazione online: figura tra i primi dieci influencer italiani su Twitter e, proprio per il linguaggio informale adottato sui social, si è conquistato nel 2013 il MacchiaNera Award, massimo riconoscimento per i navigatori della Rete. Non basta per parlare di innovazione?

Sicuramente alcuni membri della Chiesa hanno cominciato a esplorare le nuove tecnologie. Ma manca un’azione coordinata: non c’è un efficace background culturale, non vedo linee di utilizzo, non c’è evidenza delle best practices. È vero: questo Pontefice sta conquistando follower su Twitter e “like” su Facebook. Ma, innanzitutto, navigando in Rete, trovo molti profili del Papa e faccio fatica a distinguere i fake da quelli autentici. Questo è già uno scoglio su cui si infrange la comunicazione del Vaticano. Ma soprattutto bisogna ricordare che comunicare sui social significa interagire: non ci si può limitare a mandare messaggi a senso univoco, come fossero comunicati stampa o proclami. Purtroppo questa cattiva gestione del mezzo è attribuibile anche a molti nostri politici o personaggi pubblici. A me piacerebbe scoprire, nel 2014, che il Pontefice, faccio qualche esempio, ha messo un like al commento di un capo di Stato o caricato un’immagine sul suo profilo Facebook scrivendo “Riflettiamoci sopra”. Il vero errore è immaginare che Facebook sia il Calendario di Frate Indovino. Francesco dovrebbe aprire un suo spazio, piuttosto che usare lo spazio di Fb.

Sta pensando a un blog a firma del Papa?

Perché no? O comunque uno spazio di riflessione personale. Lo immagino all’interno di vatican.va, il portale del Vaticano. Il Pontefice potrebbe scrivere cose sue o anche, se lo ritiene opportuno, rilanciare messaggi e iniziative altrui come un documento di una Congregazione che ritiene particolarmente interessante o una foto del National Geographic che lo ha colpito. E potrebbe chiedere a cardinali e vescovi di aprire blog personali, magari tutti riuniti sotto il coordinamento di vatican.va e graficamente omogenei. Sarebbe un bene anche perché, a quel punto, il traffico non lo controllerebbe più Facebook o Twitter, ma direttamente il Vaticano. Questo è un altro nodo cruciale per l’innovazione della Chiesa: riuscire a gestire l’advertising in proprio.

Qualche esempio?

Stanno già nascendo agenzie per la pubblicità online all’interno della Chiesa che fanno advertising etico, sia come tipologia di prodotti promossi sia come modalità di gestione dei prodotti stessi. Mi spiego: se carico un filmato su Youtube, concedo automaticamente la possibilità a Google di inserire pubblicità all’interno del mio filmato. Se supero un certo volume di traffico, BigG mi riconosce una quota del valore dei banner che passano sul mio video. Ma non fa una selezione accurata dei banner: potrei mettere un video contro la sperimentazione dei farmaci sugli animali e constatare che al suo interno è stato inserito lo spot di una macelleria. Il search ha letto la parola “animali” ed è scattato in automatico l’accostamento. Ora c’è una realtà che è nata da poco e si chiama AdEthic: è una società della Fondazione per l’Evangelizzazione attraverso i Media (Fem) e opera in campo pubblicitario per la raccolta e la ridistribuzione delle risorse economiche per progetti di solidarietà. In sostanza da un lato si propone di sostenere i siti delle piccole associazioni cattoliche vendendo i loro spazi pubblicitari agli inserzionisti, dall’altro opera una selezione dei banner da distribuire, garantendo all’editore che ospita l’advertising “pubblicità coerente” e rivolta a progetti di solidarietà.

Chiesa e business pubblicitario: è fattibile?

Direi di più: è importante che all’interno della Chiesa nasca una sensibilità per gli strumenti che possano consentire di sostenere i costi del digitale, ovviamente in modalità etiche. L’obiettivo finale resta l’evangelizzazione, che però ha dei costi e non si può immaginare che siano sostenuti dalle offerte a fondo perduto. In più per un cattolico l’advertising etico ha una valenza maggiore. Inutile girarci intorno: la Chiesa è (anche) un brand. E se io, fedele cattolico, trovo la pubblicità di un prodotto su un sito ecclesiastico piuttosto che altrove magari sono più portato all’acquisto di quel prodotto. Qui torno al blog del Papa di cui si parlava prima: finora intorno ai messaggi del Pontefice su Twitter e Facebook guadagnano i due social network attraverso l’advertising targettizzato. Con un blog personale il Santo Padre, o meglio i suoi collaboratori, potrebbero decidere se vendere o meno gli spazi pubblicitari a Google o piuttosto farsi una propria Sipra, un’agenzia pubblicitaria targata Vaticano.

Scenario possibile o fantascienza?

Diciamo che siamo ancora indietro e non solo su questo punto. Per esempio è inadeguata la gestione di Wikipedia da parte di sacerdoti e laici cattolici. Pensiamo che la parola più discussa sull’enciclopedia collettiva di Internet in inglese, spagnolo, francese e tedesco è Jesus. Questa voce, nelle quattro lingue che ho citato, è quella che suscita più controversie e più correzioni, e quindi sostanzialmente picchi di interesse, da parte chi collabora volontariamente a Wikipedia. Eppure in alcune voci enciclopediche fondamentali non c’è traccia della posizione della Chiesa. Vuol dire che è ancora scarso il contributo dei fedeli a questa fonte di sapere collettivo online.

Eppure, sul fronte tecnologico, ci sono iniziative rilevanti. Da febbraio 2013 sono online 256 antichi codici miniati nell’ambito di un gigantesco progetto di digitalizzazione del Fondo Palatino della Biblioteca Apostolica Vaticana.

È un’opera importante che ha radici antiche. In passato i monaci benedettini contribuirono alla trasmissione di un enorme patrimonio culturale copiando a mano i manoscritti. Oggi è il momento di diffondere questo patrimonio attraverso Internet. Peraltro la Chiesa ha accumulato nei secoli una ricchezza immensa di testi e immagini. Google ha creato Google Books, progetto di digitalizzazione con l’ambizioso obiettivo di creare una versione digitale del patrimonio librario dell’intera umanità: attraverso questo strumento si può accedere ad estratti di volumi anche antichissimi. La Chiesa potrebbe dar vita a una sorta di Vatican Books, una bibliotecana vaticana online. E pensiamo anche all’enorme patrimonio di opere d’arte accumulate nei secoli: si potrebbe gestirlo online con un ritorno economico, magari dando la possibilità di scaricare immagini ad alta risoluzione attraverso una fee di accesso. Un tempo le opere d’arte nascevano per spiegare al popolo i dogmi religiosi, oggi possono essere usate per parlare ai fedeli di tutto il mondo superando le barriere linguistiche.

In sostanza lei ritiene che la Chiesa sia ancora poco visibile su Internet?

Parlano le evidenze dei dati. E un dato inquietante emerge dall’analisi di The Internet Map, grande mappa del traffico in Rete (http://internet-map.net/). Si tratta di un’accattivante rappresentazione grafica dei vari siti di tutto il mondo raffigurati come tanti pianeti circolari facenti parte di costellazioni. Ogni sito è un cerchio sulla mappa e le sue dimensioni sono determinate dal traffico: più il cerchio è grande, maggiore è il traffico (al primo posto ovviamente c’è Google, seguito da altri big). Gli utenti che passano da un sito a un altro contribuiscono a creare dei collegamenti, quindi ogni cerchio è situato nelle vicinanze di altri ritenuti analoghi. Ebbene, emerge che i siti più vicini al cerchio di vatican.va sono quelli pornografici: questo è dovuto, a mio parere, ai tanti accessi scaturiti dalla questione pedofilia nei ranghi ecclesiastici. Evidentemente su vatican.va la maggioranza degli utenti è andata a cercare informazioni relative a questo argomento, trovandosi così a digitare parole chiave usate anche nel search dei siti pornografici. Il Vaticano è talmente poco influente su Internet da essere diventato invece influente (ovviamente senza alcuna intenzione pregressa) sul tema dei preti pedofili. Anche questo è un segnale che serve innovazione.

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