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C’è vita dopo il POC: Andrea Birolo (Reale Group) e i freni al corporate venture capital

“Le aziende sono brave a fare test, proof of concept, ma si bloccano quando c’è da sviluppare il prodotto perché manca la programmazione”, dice Andrea Birolo, Head of Corporate Venture Capitale di Reale Group. Che racconta il modello adottato dalla società assicurativa per investire sulle startup e i risultati raggiunti

Pubblicato il 15 Ott 2021

Andrea Birolo, Head of Corporate Venture Capital, Reale Group

“Il rischio di trovarsi congelati nella trappola del POC o del pilot”. Per Andrea Birolo, head of corporate venture capital in Reale Group (Reale Mutua Assicurazioni),  è il primo elemento che scoraggia le aziende a investire sulle startup. E, invece, c’è vita dopo il POC,  il proof of concept, il test di un prodotto o di un servizio, per fortuna. A patto che si creino alcune condizioni all’interno dell’azienda e si segua un percorso molto vicino al business. Come dimostra l’esperienza fatta dal gruppo assicurativo che dal 2018 ha messo in portafoglio cinque startup (una delle quale ha fatto exit: Moneymour, acquisita da Klarna nel 2020) ed è entrata nell’ecosistema israeliano attraverso il fondo Insurtech FinTLV.

Reale Group e il Corporate Venture Capital

Reale Group è una realtà  presente in Italia, Spagna e Cile, con 115 milioni di risultato consolidato, 5 milioni di assicurati e 3.700 dipendenti.  Andrea Birolo, cresciuto nel mondo assicurativo, da quattro anni è entrato nel team innovazione del gruppo per seguire le attività di corporate venture capital, una delle cinque unità che si occupano di trasformazione digitale e innovazione coordinate da Matteo Cattaneo. Nel 2018 c’è stato il primo investimento su una startup, nel 2020 il primo fuori dall’Italia, in Israele. Nel 2021 l’ingresso nel capitale di Pharmecure.  Ma non è mai stato creato un veicolo dedicato: “All’inizio si è deciso di riservare una porzione del patrimonio del gruppo al venture capital a livello globale”, spiega Birolo. Quanto non è dato sapere. Non è stato invece definito un arco di tempo per gli investimenti e neanche un budget annuale. “Gli investimenti vengono conclusi solo se a monte di tutto il processo c’è uno stakeholder di business che ci dice che l’impegno finanziario è funzionale al problema che sta cercando di risolvere”.

Il Corporate Venture Capital vicino al business

E qui emerge la prima regola che evita di far finire il corporate venture capital nel freezer dei POC: essere vicini al business. E focalizzarsi sull’integrazione fra i due mondi: quello dell’azienda e quello delle startup. “In questo momento stiamo facendo questo lavoro su tre startup, a livelli diversi”, racconta Birolo. “Charlie24 ci aiuta a gestire in formato digitale l’erogazione del servizio di soccorso stradale e cominciamo a vedere i benefici. Con Pharmecure (sulla quale è stato fatto il primo investimento nel 2019, ndr), invece, stiamo facendo un lavoro di sostegno nel percorso verso la dimensione di scaleup: per noi la consegna dei farmaci a domicilio è strategica ma questa possibilità deve essere portata a livello nazionale. Nel caso di Auting (investimento del 2018, ndr.) invece diamo il nostro aiuto a sviluppare il modello di car sharing tra privati in diverse città, fornendo le coperture assicurative ai clienti”.

Al Corporate Venture Capital serve programmazione

Negli Stati Uniti il 75% delle aziende della lista Fortune 100 fanno attività di corporate venture capital. In Europa e in Italia siamo ancora lontani  da queste percentuali. Dove stanno i freni? C’è solo il rischio POC? “Quello forse è il più evidente. Le aziende sono brave a far partire modelli per testare soluzioni delle startup ma spesso si ritrovano congelati in una situazione che non permette il passaggio dal test alla scaleup, di portare il prodotto o servizio  sul mercato”.

Perché succede questo? Birolo suggerisce una causa principale di fallimento: la mancanza di programmazione. “Se lo sviluppo non è stato pianificato dall’inizio, non c’è il budget, non ci sono le persone da coinvolgere, manca il commitment da parte degli stakeholder di business. Il pilot va bene, ma senza la necessaria pianificazione a monte resta solo un esercizio di stile. Se le aziende vogliono fare davvero corporate venture capital devono pensare subito a come fare scaleup delle soluzioni testate. Altrimenti butti via un sacco di risorse, crei frustrazione e rigetto nella startup che hanno risorse scarse e magari per un periodo di tempo significativo le  investono in quel progetto”. Altro errore da evitare: “Far partire la partnership con una startup senza definire i kpi, senza dotarsi di metriche di valutazione della startup e della partnership”.

Sullo sfondo resta l’annosa “questione culturale”. Fatto l’investimento, compiuto l’esercizio di corporate venture capital, non accade nulla se non c’è un investimento convinto dal vertice dell’azienda. “Non bastano le dichiarazioni del CEO alla stampa”, dice Birolo. ” Il leader deve accettare il confronto con le startup, deve trovare il tempo per farlo per decidere insieme quale direzione deve prendere la partnership”. Se continuiamo a parlarne, evidentemente, è perché ancora non accade sempre così.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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