Gli animi si stanno decisamente scaldando: i fattorini della startup Foodora si sono raccolti anche ieri davanti alla sede dell’azienda in via Macedonio Melloni a Milano. Sulla porta a vetri degli uffici i riders, ovvero coloro che in bici consegnano il cibo a domicilio, hanno attaccato fogli che spiegano i motivi della protesta. Erano una quarantina e hanno aspettato di parlare con i dirigenti ma nessuno si è fatto vivo. “Ci sono solo gli impiegati e si sono barricati dentro. Non ci vogliono parlare” hanno detto a La Repubblica.
Siamo insomma arrivati alle barricate in questa vicenda dove protagonista è la startup tedesca attiva nella consegna di cibo a domicilio che ha una delle sue sedi in Italia e che è finita giorni fa nel mirino a seguito dello sciopero dei suoi fattorini (probabilmente il primo nella storia di una startup) a Torino e a Milano, insoddisfatti della misera retribuzione (meno di 3 euro a consegna) e del precariato.
Il caso Foodora ha portato all’attenzione generale un tema emerso in realtà già da qualche anno: i nuovi lavori scaturiti dall’innovazione e le regole con le quali questi lavori devono essere disciplinati. Una vicenda che riapre la finestra su uno dei grandi interrogativi contemporanei: la disruption tecnologica sta causando la distruzione o la precarizzazione dei posti di lavoro? E se sì, come è possibile rimediare? Il quesito si era già posto a livello internazionale con Uber, la società fornitrice di una app per chiamare un’auto con conducente da smartphone, accusata di sfruttare i propri “tassisti”. In Italia il problema è riemerso con CoContest, startup che organizza contest tra architetti in crowdsourcing: a suo tempo fu accusata da una parlamentare di Sel di “schiavismo”. Accusa che viene ripetuta ora da più parti per Foodora. Certamente esiste un problema di regole, per Uber come per altri player della new economy e per i loro collaboratori. Il lavoro sta cambiando, ma i regolamenti sono vecchi. In particolare le regole valide per determinati modelli economici sono chiaramente non più applicabili alla sharing economy, economia della condivisione, termine volutamente generico per descrivere un insieme di nuovi modelli di business.In particolare per Foodora si parla di gig economy, l’economia dei lavoretti. Come affrontare le nuove sfide? Vediamo innanzitutto come è stata affrontata finora questa.
►Cosa e cosa fa è Foodora – È una startup tedesca, fondata a Monaco di Baviera nel 2014, che consegna cibo a domicilio entro 30 minuti dall’ordine. Opera in Australia, in Canada e in diversi paesi europei tra i quali l’Italia a Milano e Torino, città nelle quali riscuote discreti risultati.
►Il caso – La vicenda, come è noto, è salita alla ribalta delle cronache sabato 8 ottobre quando una cinquantina di lavoratori di Foodora sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dalla società. Il 16 ottobre la protesta dei driver si è spostata da Torino a a Milano, dove si è tenuta una manifestazione davanti alla sede meneghina della startup. In seguito ci sono stati altri sit-in. Inizialmente partita da un contenzioso sulle biciclette (i mezzi così come la manutenzione sono a carico dei lavoratori), la protesta si è poi allargata su tre fronti. I lavoratori hanno contestato il passaggio da una retribuzione oraria di 5,40 euro ad una retribuzione a cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda sarebbe pronta a implementare per tutti i neo assunti. In secondo luogo hanno messo in discussione il tipo di contratto: i fattorini e i promoter (coloro che si occupano di fare pubblicità all’azienda) non sono dipendenti ma risultano essere liberi professionisti assunti con un co.co.co. I lavoratori sostengono però che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, un rapporto subordinato: lo dimostrano il fatto di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo di partenza per le consegne prefissato. In passato i pony express avevano presentato gli stessi rilievi e fatto ricorso in tribunale, ma la magistratura non aveva dato loro ragione. Infine tra i motivi della protesta dei fattorini di Foodora c’è il licenziamento di due ragazze che lavoravano come promoter, “colpevoli” di aver partecipato ad una delle assemblee tramite cui i rider di Foodora hanno organizzato lo sciopero di sabato. Il licenziamento è avvenuto tramite la disconnessione delle due lavoratrici dal gruppo WhatsApp nel quale si organizzano i turni di lavoro. Il caso Fedora è diventato un caso mediatico ed è addirittura arrivato in parlamento: Giovanni Paglia, deputato eletto nelle liste di Sinistra ecologia e libertà in Emilia Romagna, ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro Giuliano Poletti per chiedere un intervento sul caso Foodora.
►Come ha risposto Foodora agli attacchi – Inizialmente Foodora Italia si è limitata a rispondere con uno scarno statement ufficiale:“L’azienda non rilascia dichiarazioni prima della chiusura di un accordo con i suoi collaboratori. Foodora si dichiara dispiaciuta per le modalità con le quali si è manifestato il dissenso da parte dei collaboratori nella città di Torino. L’azienda si è sempre resa disponibile al dialogo diretto. Di fatto la startup, che opera sul mercato italiano da un anno, è un generatore di opportunità soprattutto per i giovani, nella maggior parte studenti, che possono gestirsi la collaborazione con totale flessibilità“. Gianluca Cocco e Matteo Lentini, gli amministratori, hanno poi spiegato che, in estrema sintesi, quello dei fattorini non deve essere inteso come un lavoro vero e proprio ma un modo per coniugare una passione, quella per la bicicletta, con l’arrotondamento delle proprie entrate.
►Cosa dicono i sindacati – Il caso Foodora alimenta anche la polemica politica. “È curioso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti scopra dai giornali che esiste un lavoro non tutelato e non normato” ha detto l’ex dirigente torinese della Fiom, oggi deputato di Sinistra Italiana, Giorgio Airaudo. “Il ministro – ha proseguito – non è un commentatore, ha un ruolo. Quindi convochi i manager di Foodora, non lasci soli i ragazzi e impegni il governo a coprire il vuoto normativo“.
►Cosa succede con la gig economy – Una delle critiche più frequenti è che l’avvento dell’economia della condivisione stia causando la perdita di posti di lavoro o li stia rendendo precari. È così? Una domanda di questo tipo è stata rivolta da EconomyUp a Arun Sundararajan, esperto mondiale di sharing economy, docente alla Stern School of Business della New York University e autore del libro “The Sharing Economy- The End of Employment and the Rise of Crowd-Based Capitalism”. Ecco cosa ha risposto: “Dipende dal tipo di azienda. Per esempio, nel settore dei trasporti, negli Stati Uniti, sono molti i lavoratori che apprezzano la flessibilità. Da una ricerca è emerso che due driver di Uber su tre non desiderano un lavoro fisso, ma un’entrata supplementare: per esempio sono genitori single che necessitano di denaro per sostentare il nucleo familiare ma anche di tempo per occuparsi dei propri figli. In ogni caso, più andiamo avanti più dovremo smettere di pensare alle nostre entrate come uno stipendio erogato da un datore di lavoro. Presto la maggior parte dei lavoratori dipendenti non sarà più full time. E non parlo solo dei cosiddetti lavoretti, dall’idraulico al falegname. Esistono già piattaforme per avvocati, o agenti commerciali, dove i professionisti mettono a disposizione i propri servizi. In Italia è nata CoContest, la startup che ha sviluppato un portale online dedicato alla ristrutturazione di abitazioni attraverso gare tra architetti e professionisti del settore organizzate in crowdsourcing. Questo è il futuro. Il problema è che le persone sono ancora abituate a pensare in termini di stipendio, protezione, assicurazione sanitaria e di impiego full time. Nei secoli scorsi la situazione dei lavoratori era terribile, poi sono venute le battaglie sindacali e tutto è cambiato. Adesso siamo di fronte a un mondo nuovo. Dobbiamo fare quello che è stato fatto in passato: creare un contratto sociale per questa nuova modalità di lavoro. Riguarderà buona parte dell’economia. Ma non possiamo rifiutare in blocco il nuovo modello perché non abbiamo ancora previsto le tutele sociali“.