Scenari economici

Fusioni e acquisizioni, pro e (tanti) contro

I processi in cui le imprese si fondono o ne acquisiscono altre sono certamente un beneficio per le società acquisite, e talvolta anche per gli acquirenti. Ma lo sono anche per l’utilizzatore finale dell’innovazione che ha motivato questa operazione? Ecco perché è possibile dubitarne

Pubblicato il 05 Nov 2015

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Le coincidenze. Nel giro di poche ore due articoli sugli effetti di fusioni e acquisizioni (con buona pace di tutti, mi rifiuto di chiamarle ‘M&A’. A meno che Giovanni Iozzia non mi affidi un articolo in inglese, nel qual caso ubbidirei senz’altro scrivendolo tutto in inglese, senza intercalari in italiano).

Il primo articolo, dunque, un editoriale del New York Times, titola “Come le fusioni e le acquisizioni danneggiano l’economia’; il secondo, un pezzo su Economyup di Mariano Corso, Andrea Gaschi e Marco Morfino, titola “Fusioni e acquisizioni (non M&A, bravi!!) accelerano la trasformazione digitale”. Negativo il primo, positivo il secondo. Bello, un po’ di dibattito.

Il NYT prende una posizione da libro di testo di microeconomia. Fusioni e acquisizioni, vi si dice, sono un fatto negativo perché sono lo strumento procedurale mediante il quale si raggiunge la concentrazione e, quindi, la progressiva morte della concorrenza. Un processo, quello della concentrazione, che non incontra il favore della mentalità statunitense, tutta protesa verso la concorrenza, la difesa delle regole che impediscano che i ‘piccoli‘ vengano divorati dai ‘grandi‘.

Ciò detto, l’articolo ci ricorda che una ricerca condotta presso la University of Southern California ha stimato che nel 2013 circa due terzi delle industrie negli Usa potevano essere definite ‘altamente concentrate’, contro un terzo solo sette anni prima. Inutile dire, o forse è utile dirlo, che il processo di concentrazione è stato molto favorito dalle amministrazioni repubblicane, cioè di destra, e da giudici conservatori i quali “hanno aderito al principio ambiguo secondo cui la concentrazione induce maggiore efficienza [aziendale, ndr] e che sarebbe il libero mercato a rimediare ad eventuali problemi che dovessero sorgere come conseguenza della concentrazione”.

Nei libri di economia questa linea di pensiero viene presentata come una sorta di viaggio che parte dalla libera concorrenza, passa per l’oligopolio, e arriva al monopolio. Tre sono le variabili da tenere d’occhio: i profitti, i prezzi, le quantità prodotte e consumate. In libera concorrenza i profitti di ciascuna impresa sono identici a quelli di tutte le altre, e sono la media del settore industriale. Quando, per esempio mediante fusioni e acquisizioni, si passa a una forma di mercato in cui le imprese sono in numero minore e di più grande dimensione, si può dimostrare che i profitti aumentano, i prezzi per il consumatore aumentano, e le quantità prodotte e consumate diminuiscono. L’ulteriore passaggio al monopolio comporta poi profitti ancora più alti, prezzi ancora più alti, e quantità prodotte e consumate minori sia di quelle in condizioni di oligopolio che, a maggior ragione, di quelle in concorrenza perfetta. Pochi dubbi, dunque, che al consumatore piaccia la concorrenza e meno assai piacciano forme di mercato più concentrate.

Ma, come è evidente, così non è per le imprese, le quali per definizione sono entità dedite alla massimizzazione dei profitti. E, come dice la teoria economica poco sopra sommariamente illustrata, esse cercano di eliminare i propri concorrenti con ogni mezzo possibile, da una politica aggressiva dei prezzi che ne faccia aumentare la competitività di prezzo e spinga la concorrenza fuori mercato, a una politica di ricerca e innovazione che ne faccia aumentare la competitività di prodotto, all’inglobamento di imprese la cui linea di produzione sia prossima alla propria o, in ogni caso, rappresenti una aggiunta profittevole alle proprie. Normale, niente di cui scandalizzarsi. (Le balle sulle virtù delle piccole e medie imprese sono, per l’appunto, balle).

Corso, Gaschi e Morfino raccontano esattamente questa storia in modo piacevole e interessante parlando di effetti di fusioni e acquisizioni sulla diffusione del digitale. La loro tesi centrale è che “Le operazioni di M&A (ritiro il ‘bravi’ di poco sopra, nda) costituiscono (anzi) un fattore di accelerazione della trasformazione per tutti gli attori del digitale”. Io non ho le competenze per dire se questa proposizione sia vera o meno, non ho fatto ricerca per sottoporla a verifica, e sono praticamente un analfabeta sul tema dei vantaggi della diffusione del digitale per ‘gli attori’ coinvolti. Ma una cosa la so: nel breve periodo, la proposizione è probabilmente vera, a condizione che si dica chiaramente che essa non vale per gli utilizzatori (consumatori, se vogliamo). I processi di concentrazione non favoriscono mai i consumatori, poiché essi generano prezzi più alti e quantità inferiori. Io sono rimasto al libro di economia: concorrenza è bene, monopolio no. Bene per l’economia nel suo complesso, ovviamente; altra cosa gli attori dell’industria interessata.

Ma questo, come ho detto chiaramente, nel breve periodo. E nel lungo? E se fosse vero che senza processi di aggregazione tra imprese la diffusione ‘universale’ del digitale sarebbe più lenta, forse molto più lenta, di quanto non sarebbe in una struttura di mercato perfettamente concorrenziale? Voglio dire: e se davvero fusioni e acquisizioni producessero la diffusione accelerata del digitale agli utilizzatori finali, cioè alle imprese, in cui si traduce in aumento della produttività, e al consumatori, per i quali si traduce in aumento di benessere? Io non ci credo, ma il dubbio rimane. E mi piacerebbe che qualcuno mi parlasse di questo.

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