vita da startup

Perché (e come) mi prendo cura della mia salute mentale e perché ogni founder dovrebbe farlo



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Dieci anni fa i primi problemi e la terapia, fino a far diventare il supporto psicologico un contributo aziendale. Un founder racconta il suo percorso contro lo stress. E come si prende cura del suo benessere

Pubblicato il 30 giu 2025



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Nel 2015, nella mia prima startup andavamo a mille, ma di testa non c’ero più.: ritmi massacranti, la mia relazione di coppia appena naufragata e litigi quotidiani con i soci mi logoravano. Dormivo poco, scattavo per un nonnulla e la sera sprofondavo davanti alle serie TV senza energie. Se avessi investito di più su me stesso prima, forse avrei salvato legami preziosi.

Salute mentale, un problema da founder di startup

Quando non reggevo più, su consiglio di mia madre e di un’amica, fissai un incontro con la psicoterapeuta consigliatami da quest’ultima, Marilisa. Durante la seduta accennai una risata raccontando una tensione tra soci, “Perché ridi?” mi chiese. “Per sdrammatizzare”, risposi. “A te fa ridere questa situazione?”. “No, forse no”. “A me sembra che non ci sia nulla da ridere. Allora perché ridi?”. In quel momento venni invaso da molta tristezza e capii che avevo trovato la persona giusta per supportarmi.

Poco dopo mi tornò in mente una frase di Giulia, founder di Tacati: qualche tempo prima, durante una cena, mi aveva stuzzicato dicendo: “Farhad, forse eviti la terapia perché temi di perdere la tua fame da imprenditore”. Allora avevo sorriso e cambiato discorso; oggi capisco che quello era stato il primo campanello d’allarme – e che la vera fame non è agitazione, ma lucidità e presenza.

Dopo qualche mese dall’inizio della terapia inciampai in uno studio americano, non ricordo il titolo, ma il dato sì: più di sette founder su dieci convivono con problemi di salute mentale. Non era il mio “momento no” e non ero solo. Ed io spuntavo tutte le caselle: insonnia, nervosismo, incapacità di staccare (qui un sondaggio europeo sul malessere di chi fa startup)

Dalla terapia individuale al contributo aziendale

Nel 2019 Mamazen cresceva in fretta, ma alcune persone, scelte male lo ammetto, non condividevano davvero i nostri valori. Sentivo che la cultura aziendale rischiava di sgretolarsi. Chiesi alla mia terapeuta di aiutarci; per un conflitto di ruoli mi indirizzò a un counselor della stessa Scuola, Piergiulio. In pochi incontri emerse il disallineamento: chi non si riconosceva nella missione scelse altre strade; il gruppo rimasto si compattò e i risultati arrivarono.

Oggi, a distanza di anni e con l’ingresso di nuove persone abbiamo formalizzato quel percorso:

  • 8 ore al mese di sessioni di counseling di gruppo con professionisti della scuola Gestalt di Torino
  • Contributo economico per avviare un percorso di psicoterapia a ogni dipendente, e presto anche alle startup del nostro studio.

Come mi prendo cura di me

  • Mindfulness quotidiana: 10 minuti di meditazione ogni mattina prima di qualunque altra cosa, anche prima del caffè!
  • Spazio di decompressione: dedico due sere a settimana allo sport che mi piace, acrobatica, dove ho un’insegnante splendida (Belen) capace di leggere le mie paure e di spingermi avanti con coraggio ma con cura di me stesso, senza strafare visti i miei 48 anni! (le mie compagne ventenni di corso sono anche loro di grande supporto, sono la loro mascotte).
  • Ritiri annuali di pratica intensiva di Mindfulness, lontano dal rumore, mi servono a centrarmi e ripartire in quinta. Anche qui ho un’insegnante fantastica, Isabella che con la sua scuola organizza ritiri meravigliosi.
  • EMDR: ci sono arrivato su indicazione di una terapeuta della scuola, che ha intuito potesse aiutarmi a elaborare i traumi dell’infanzia vissuta in Iran durante la guerra.
  • Appuntamenti periodici con il mio prodigioso psicoterapeuta Pietro, mi segue da anni e senza di lui sarei perso (anche lui fa sempre della scuola Gestalt).

Non ho formule magiche da condividere: queste sono le cose che, finora, hanno funzionato per me. Credo che ognuno debba costruire la propria cassetta degli attrezzi emotivi, prima che lo stress prenda il sopravvento.

Il mantra di Mamazen: sostegno reciproco al centro

Ho imparato che la scelta delle persone giuste vale più di qualsiasi altra cosa. Oggi, quando lanciamo o investiamo in un progetto, cerchiamo e costruiamo:

  • Investitori e advisor convinti che l’exit si costruisce con founder in salute, stipendi equi e ritmi sostenibili, non con maratone da 24 ore su 24.
  • Almeno due founder per startup, così che possano sostenersi a vicenda; se nasce un conflitto, interveniamo con dialoghi facilitati, lo abbiamo fatto di recente nel team di una startup del nostro portfolio che stava vivendo forti frizioni
  • Persone con una rete di supporto: chi sa chiedere aiuto si rialza prima.
  • Retrospettive di squadra trimestrali: ci fermiamo a esaminare cosa non ha funzionato, sospendendo il giudizio sul chi e concentrandoci su come migliorarci.
  • Ritiri aziendali offline una o due volte l’anno: stacchiamo i computer, passiamo due/tre giorni insieme per rinsaldare legami e creatività. A luglio abbiamo in programma il prossimo.
  • Trasparenza sui numeri: ogni mese condividiamo i risultati e i numeri senza veli con tutto il team: sapere dove siamo aiuta tutti a remare nella stessa direzione.

Perché conviene (anche al business)

Spulciando report per questo articolo ho scoperto che lo Startup Snapshot 2023 conferma la mia intuizione: il 72 % dei founder vede un legame diretto fra salute mentale e risultati d’impresa. Meno turnover, decisioni più lucide, sprint che tagliano davvero il traguardo.

Quello che sto imparando oggi

Separare la mia identità da Mamazen non vuol dire amarla di meno, ma lasciarle spazio per crescere. Oggi studio per diventare counselor Gestalt, e anche Alessandro Mina e Manuela Maiocco pensano di farlo. Prendersi cura di sé e del team non è un extra: è il carburante più affidabile per qualunque exit. Prima dei pitch, ci siamo noi.

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