LA GUIDA

Smart working: che cosa è, norme, piattaforme e organizzazione del lavoro agile in azienda

L’emergenza Covid-19 ha dato impulso allo smart working, o lavoro agile, l’innovativa modalità di organizzazione del lavoro che consente flessibilità e chiede responsabilità. Qui tutto quello che c’è da sapere su significato, numeri, startup del settore, nuove regole e sulla loro applicazione nelle aziende

Pubblicato il 26 Mar 2021

Photo by Jesus Kiteque on Unsplash

Lo smart working sta definitivamente prendendo piede nelle aziende a causa della rivoluzione portata negli uffici dalla pandemia da Covid19. Come scrive Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, “lavorare da remoto è diventato per molti una necessità, per consentire di proseguire le attività e contenere gli enormi danni economici e sociali che il coronavirus rischia di causare, nel rispetto delle ordinanze. Ma questa emergenza è stata anche un grandissimo test organizzativo: le imprese che avevano già investito in tecnologie e modelli organizzativi e manageriali di smart working si sono trovate avvantaggiate, ed hanno potuto affrontare efficacemente la discontinuità, le altre hanno dovuto “improvvisare”, scoprendosi molto più fragili e impreparate”.

Ecco dunque perché è importante capire bene cos’è lo smart working, quali sono i suoi livelli di adozione, quali i benefici e le criticità, e come è possibile applicarlo nelle aziende.

Smart working: quale traduzione?

Ci voleva, come al solito, la lingua inglese per esprimere in maniera sintetica un concetto in realtà ampio e articolato. Come è noto, infatti, smart working deriva dall’inglese smart, intelligente, associato al verbo work, lavorare. Più precisamente lo smart working, che in italiano viene definito lavoro agile, è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. A volte il termine smart working è oggetto di fraintendimento o di semplificazione, come quando ci si limita a etichettarlo come “lavoro da casa” o “home working”, che è molto diverso. E che purtroppo è quello che sono stati costretti a fare i dipendenti a causa della chiusura delle imprese per Covid-19.  Altre volte lo si considera un modo per restare sempre connessi o, al contrario, per potersi permettere “vacanze” retribuite restando a casa. Niente di più sbagliato. In realtà il lavoro agile è molto altro, e molto di più.

Smart working: che cosa è

Mariano Corso propone questa definizione del Lavoro Agile:

Smart Working significa ripensare il telelavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario, lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio.

Lo smart working, scrive Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l’Università degli Studi di Milano, vuol dire permettere alle persone di interfacciarsi quotidianamente con i propri colleghi o con clienti, condividere informazioni e partecipare a riunioni, tramite l’intermediazione delle nuove tecnologie. Non si tratta quindi solo di introdurre elementi di flessibilità nei tempi e nei luoghi ma è anche un’occasione per potenziare ed accelerare il reskilling delle competenze digitali e permettere un’evoluzione della cultura digitale dell’intera organizzazione.

Smart working 2019: chi sono e quanti sono gli smart worker in Italia

Si può definire smart worker (o lavoratore nomade e agile) un dipendente che gode di flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro, e che dispone di strumenti digitali per poter lavorare in mobilità. In Italia, l’anno scorso, si contavano oltre mezzo milione di smart worker. Per la precisione nel 2019 risultavano essere circa 570mila, in crescita del 20% rispetto al 2018. In totale nel nostro Paese gli smart worker erano l’8% del totale, ma a livello nazionale spiccava a Milano con il 44%, ben al di sopra della media europea e superata, a livello continentale, solo dalla Svezia.

Non è difficile immaginare che, a fine 2020, queste percentuali registreranno un consistente incremento.

Smart working e coronavirus: 5 regole per farlo bene in tempi di epidemia

L’ufficio virtuale

Nell’ultimo periodo è emerso un nuovo concetto legato alle nuove modalità di organizzazione del lavoro: l’ufficio virtuale. Si tratta di una tipologia di servizio,  evidenzia il blog di Copernico, che offre ai professionisti e alle aziende che lavorano da remoto (e non solo) uno spazio di lavoro fisico a cui delegare alcune particolari attività, ad esempio indirizzo fisico, gestione corrispondenza ordinaria e speciale, numero di telefono dedicato, operatore telefonico per la gestione delle chiamate e sede legale, a prescindere da dove essi si trovino veramente. Per esempio, un consulente che si trova a Roma può usufruire di un indirizzo e di una segreteria virtuale a Milano, da cui facilitare qualunque operazione di logistica e invio di documentazione.

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Lavoro agile: la normativa

La definizione di smart working, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto quali pc, portatili, tablet e smartphone.

Ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento – economico e normativo – rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie. È, quindi, prevista la loro tutela in caso di infortuni e malattie professionali, secondo le modalità illustrate dall’INAIL nella Circolare n. 48/2017.

A partire dal 15 novembre 2017, le aziende sottoscrittrici di accordi individuali di smart working potranno procedere al loro invio attraverso l’apposita piattaforma informatica messa a disposizione sul portale dei servizi del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Per accedervi, sarà necessario possedere SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale); per tutti i soggetti già in possesso delle credenziali di accesso al portale dei servizi del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si potrà utilizzare l’applicativo anche senza SPID.

Nell’invio dell’accordo individuale dovranno essere indicati i dati del datore di lavoro, del lavoratore, della tipologia di lavoro agile (tempo determinato o indeterminato) e della sua durata. Sarà, inoltre, possibile modificare i dati già inseriti a sistema o procedere all’annullamento dell’invio.

Le aziende che sottoscrivono un numero di accordi individuali elevato potranno effettuare la comunicazione in forma massiva.

Osservatorio Smart Working 2019

Gli ultimi dati ufficiali relativi allo smart working in Italia, pubblicati dall’Osservatorio Smart Working del Poitecnico di Milano, risalgono al 30 ottobre 2019. È possibile, se non abbastanza certo, che per ottobre 2020 il quadro sarà sensibilmente cambiato a causa della pandemia Covid-19 (coronavirus), che avrà presumibilmente dato un impulso alla diffusione del lavoro agile nelle sue varie forme. Intanto è interessante esaminare qualche dato ad oggi a nostra disposizione.

Lavoro agile in Italia: più di un’impresa su due ha avviato progetti

Nel 2019 la percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di Smart Working è del 58%, in lieve crescita rispetto al 56% del 2018. A queste percentuali vanno aggiunte un 7% di imprese che ha già attivato iniziative informali e un 5% che prevede di farlo nei prossimi dodici mesi. Del restante 30%, il 22% dichiara probabile l’introduzione futura e soltanto l’8% non sa se lo introdurrà o non manifesta alcun interesse. A fronte di questa crescita modesta, c’è da registrare un aumento di maturità delle iniziative, che abbandonano lo stato di sperimentazione e vengono estese ad un maggior numero di lavoratori: circa metà dei progetti analizzati è già a regime e la popolazione aziendale media coinvolta passa dal 32% al 48%.

 Pmi: ancora troppo disinteresse

Tra le PMI c’è un aumento della diffusione dello Smart Working: i progetti strutturati passano dall’8% dello scorso anno al 12% attuale, quelli informali dal 16% al 18%, ma aumenta in modo preoccupante anche la percentuale di imprese disinteressate al tema (dal 38% al 51%).

Smart working e pubblica amministrazione

È tra le Pubbliche Amministrazioni che si registra la crescita più significativa nel 2019: in un anno nel settore pubblico raddoppiano i progetti strutturati di Smart Working (passando dall’8% al 16%), il 7% delle PA ha attivato iniziative informali (l’1% del 2018), il 6% le avvierà nei prossimi dodici mesi a partire da ottobre 2019. Le più avanzate sono le PA di grandi dimensioni, che nel 42% dei casi hanno già introdotto iniziative strutturate e nel 7% hanno attivato iniziative informali. Nonostante questi dati incoraggianti, il ritardo resta evidente, con quasi 4 PA su 10 che non hanno progetti di Smart Working e sono incerte (31%) o addirittura disinteressate (7%) rispetto alla sua introduzione. Va inoltre sottolineato come i progetti di Smart Working nelle PA risultino ancora limitati in termine di diffusione interna poiché coinvolgono mediamente il 12% della popolazione dell’amministrazione, percentuale radicalmente diversa a quella delle imprese private e vicina al 10% che la direttiva Madia definiva come limite inferiore all’adozione. Questo dato sembra testimoniare come, pur essendosi finalmente attivate, molte PA abbiano seguito un approccio di mero adempimento normativo.

Smart working, pubblica amministrazione e coronavirus

Come abbiamo visto, nel 2019 quasi 4 PA su 10 non avevano progetti di smart working, nonostante da anni sene discutesse e anche l’Unione europea sollecitasse questo tipo di orientamento. L’emergenza Covid-19 ha spinto per un’introduzione più ampia e immediata, seppure forzata dalle circostanze. In base al decreto firmato dal presidente del Consiglio il 12 marzo 2020 i dipendenti pubblici lavoreranno “in via ordinaria” in smart working. Con due eccezioni: quelli impegnati nelle “attività strettamente funzionali alla gestione dell’emergenza”, a partire come è ovvio dagli operatori sanitari, e quelli che svolgono funzioni “indifferibili da rendere in presenza”. Individuare questi ultimi è compito, al proprio interno, di ogni amministrazione. Questo almeno fino al 25 marzo, nel periodo per ora previsto per la vigenza del Dpcm.

Smart working, elearning, startup e PMI: le misure nel Decreto CuraItalia

Dopo il coronavirus, smart working al 40% nella PA

Il 30 marzo 2020 la ministra della PA, Fabiana Dadone, alla luce dei numeri di adesione al lavoro agile rilevati nelle settimane di chiusura forzata a causa del coronavirus, ha affermato: “La pubblica amministrazione continuerà a sfruttare questa occasione per portare a sistema il 30-40% di lavoratori con questa modalità che a livello di produzione cambia proprio l’approccio lavorativo”.  La ministra ha spiegato che “le amministrazioni centrali hanno un livello molto alto, intorno all’80%, di persone collocate in smart working, i dati di tutte le Regioni si attestano al 69%. È un passo importante e grande – ha detto – una modalità di organizzazione del lavoro completamente diversa, è una vera sfida e va preso questo percorso anche finita la pandemia”.

Smart working: benefici e criticità

Secondo le organizzazioni, i principali benefici riscontrati dall’adozione dello Smart Working sono il miglioramento dell’equilibrio fra vita professionale e privata (46%) e la crescita della motivazione e del coinvolgimento dei dipendenti (35%). Ma la gestione degli smart worker presenta secondo i manager anche alcune criticità, in particolare le difficoltà nel gestire le urgenze (per il 34% dei responsabili), nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%), anche se il 46% dei manager dichiara di non aver riscontrato alcuna criticità. Se si interrogano gli smart worker, invece, la prima difficoltà a emergere è la percezione di isolamento (35%), poi le distrazioni esterne (21%), i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e la barriera tecnologica (11%).

Lavorare da remoto: dai 4 agli 8 giorni al mese

Per quanto riguarda il numero di giornate da remoto, la scelta più frequente consiste nella possibilità di lavorare da remoto 4 giorni al mese, in un quarto dei casi 8 giorni al mese, solo il 10% permette di lavorare da remoto senza vincoli. Le aziende con progetti avviati da meno di tre anni prevedono principalmente 4 giornate al mese (53%) o 2 (12%), mentre quelle che hanno avviato lo Smart Working da più tempo consentono un maggior numero di giornate per il lavoro da remoto e, nel 17% dei casi tolgono ogni vincolo a priori (contro il 6% delle realtà con progetti più recenti). In merito alla flessibilità di luogo, Il 40% permette ai dipendenti di lavorare da qualsiasi luogo, ma l’opzione più diffusa è l’abitazione del dipendente (98%), seguita da altre sedi aziendali (87%), spazi di coworking (65%), luoghi pubblici (60%) e presso clienti o fornitori (56%).

Le competenze digitali per lo smart working

Nel libro “Smart Working: mai più senza” uscito nella collana Hr Innovation di AIDP Franco Angeli, Arianna Visentini e Stefania Cazzarolli ricordano che “per lavorare smart, gli strumenti digitali sono indispensabili e al contempo essi insegnano a parlare con tutti, a cercare “connessioni” e ad essere curiosi anche fuori dal proprio spazio di ruolo formale. La prospettiva dell’autonomia e della libertà di potersi scegliere orari e luoghi di lavoro porta con sé la naturale esigenza di saper utilizzare gli strumenti di comunicazione, virtualizzazione, accountability, coordinamento e pianificazione“.

Le piattaforme per lavorare a distanza

Per realizzare lo smart working assumono un ruolo rilevante le piattaforme per lavorare a distanza. Le principali offrono una serie di funzionalità pensate per consentire alle persone di svolgere la propria attività in team nel modo più efficace possibile, garantendo l’opportunità di vedersi e parlare, ma anche di condividere contenuti, intervenire insieme sui medesimi file, evidenziare le priorità e così via.

Secondo un’analisi  di XChannel sulle principali soluzioni cercate dagli italiani su Google, Skype è la N.1 . I rivali, nelle settimane del Covid-19, sono Zoom CloudGotomeetingHangoutMicrosoft Team e Houseparty, che però sono usati per motivi e scopi differenti.

Qui è possibile trovare un elenco di piattaforme, da G-Suite a Cisco Webex Meetings, da Microsoft Teams a Skype, da Slack a Asana, da Adobe Connect a Citrix Go ToMeeting.

Smart working: 17 piattaforme per lavorare (bene) a distanza

Startup dello smart working

A marzo 2021 l’Osservatorio Startup Intelligence, in collaborazione con l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ha analizzato le startup che offrono servizi o strumenti che permettono alle persone di lavorare in modo più efficace sia all’esterno che all’interno degli spazi di lavoro e di migliorarne il benessere.

Oggetto delle analisi sono 371 startup internazionali, di cui 20 italiane, finanziate negli ultimi due anni (dal 2019) da investitori istituzionali. Le startup internazionali del campione di cui è nota l’entità del finanziamento (282 startup) hanno ricevuto complessivamente finanziamenti per oltre 5,3 miliardi di dollari.

I due Osservatori hanno anche selezionato 7 startup italiane impegnate in questo campo. Gli ambiti applicativi considerati sono tre, a loro volta suddivisi in categorie: il primo (Working Activity) riguarda il supporto dato alle attività lavorative delle persone, il secondo (Physical Workplace) fa riferimento alle iniziative riguardanti gli ambienti e gli spazi fisici in cui le attività vengono svolte, mentre il terzo (Wellbeing) si concentra sulla sfera del benessere psico-fisico della persona nel contesto lavorativo.

ECCO 7 STARTUP ITALIANE DELLO SMART WORKING

Smart working e cybersecurity

L’introduzione dello smart working nelle aziende, soprattutto se avviene all’interno di organizzazioni impreparate ad affrontarlo, può far emergere criticità legate ai temi della cybersecurity. Ne parla in questo articolo Pierguido Iezzi, co-founder di Swascan. “La digital transformation obbligata dalla pandemia di coronavirus – scrive – ha imposto a tutti lo smart working e, di fatto, ad adottare soluzioni valide per mettere insicurezza il cosiddetto lavoro agile: una su tutte, l’uso di una VPN. Le VPN o Virtual private networks, aiutano ad aggirare le restrizioni geografiche imposte ma, soprattutto, a mantenere privata la navigazione sul web e di conseguenza sono sempre più cruciali in un periodo dove centinaia di migliaia di lavoratori sono costretti ad accedere a network aziendali da remoto, magari limitati da firewall restrittivi”.

Cyber risk, che cosa cambia con il coronavirus

Per quanto riguarda i rischi che si possono correre dal punto di vista della sicurezza informatica in azienda quando si applica lo smart working, secondo Giuseppe Galati, esperto di security per l’IT, gli scenari in tempi di coronavirus rimarranno i medesimi: furto di informazioni, compromissione di sistemi, indisponibilità di dati/ servizi e conseguentemente anche le minacce saranno le stesse. Quello che cambia, sostiene Galati, è il tipo di vulnerabilità che potrà essere sfruttata per portare a termine gli attacchi su piattaforme web istituzionali e private, erogatrici in qualche caso di servizi essenziali o strategici. Un tema ampio e da approfondire ulteriormente. Mentre il lavoro agile si sta ormai imponendo in tutto il Paese. E sarà difficile tornare indietro.

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(Articolo aggiornato al 26/03/2021)

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Luciana Maci
Luciana Maci

Giornalista professionista dal 1999, scrivo di innovazione, economia digitale, digital transformation e di come sta cambiando il mondo con le nuove tecnologie. Sono dal 2013 in Digital360 Group, prima in CorCom, poi in EconomyUp. In passato ho partecipato al primo esperimento di giornalismo collaborativo online in Italia (Misna).

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