LO STUDIO

Venture capital solo per una startup su 10, la maggior parte si auto-finanzia

In Italia due giovani imprese innovative su tre vivono di risorse proprie, una su quattro si è rivolta alle banche e soltanto l’11% ha ottenuto il supporto di VC e business angels: lo rileva lo Startup Survey condotto dal Mise con l’Istat. Che evidenzia i pochi brevetti sviluppati. E dà voce alle richieste degli startupper

Pubblicato il 28 Feb 2018

EY Yello

Se immaginiamo lo startupper italiano come un giovanissimo nerd nel garage, che abbandona l’università per seguire un’idea che cambierà il mondo, dobbiamo ricrederci: in Italia chi fonda un’impresa innovativa ha in media 43 anni (l’82% è uomo) e un livello educativo elevato: il 72,8% ha conseguito una laurea e il 16% un dottorato di ricerca. Niente college dropouts, dunque: l’università è importante; tuttavia, solo nel 19% dei casi la ricerca accademica ha fornito ispirazione per l’idea innovativa. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono molto alti, in una startup su 8 arrivano all’80% dei costi complessivi, ma non è altrettanta elevata la capacità di produrre disruption: in Italia si fa più innovazione incrementale che rivoluzionaria. Ed è vero, il capitale di ventura scarseggia: solo l’11% delle startup italiane si basa sul supporto di venture capital e business angels. Invece, 1 startup su 4 ha ottenuto un finanziamento bancario e la maggior parte vive di fondi propri: in oltre tre casi su quattro il 100% dei fondi necessari per l’avvio di impresa deriva da finanze personali dei soci.

Sono alcuni dei dati emersi dal Rapporto “Startup Survey 2016“, lo studio, frutto della collaborazione tra il Ministero dello Sviluppo economico (DG per la Politica Industriale) e l’Istat, che  illustra i risultati della prima indagine nazionale sulle neoimprese innovative. La platea target è costituita dalle startup innovative registrate al 31 dicembre 2015, beneficiarie del pacchetto di agevolazioni introdotto con il decreto-legge 179/2012 (“Startup Act italiano”); il censimento ha visto la partecipazione di ben 2.250 startup innovative su un totale di 5.150, facendo registrare un tasso di risposta del 43,7%, dato rilevante visto che il sondaggio è stato molto dettagliato (42 domande). Nel frattempo, come noto, le startup italiane sono molto aumentate e a fine dicembre 2017 se ne contano 8.362

GLI STARTUPPER NON SONO NATIVI DIGITALI

 Il Rapporto si divide in quattro sezioni. La prima è dedicata al capitale umano: nella composizione per età degli startupper italiani va evidenziato che gli under 25 rappresentano l’1,6% del totale, mentre la quota maggioritaria ha 35-44 anni (35,6%) e 45-64 anni (33,5%); gli over 65 sono il 4,4%. Per tutti conta molto il cosiddetto “fattore territoriale“: per l’83% dei neoimprenditori la regione sede della startup è la medesima nella quale sono state condotte le principali esperienze formative o lavorative. Una novità importante è invece rappresentata dal fatto che, mentre nelle industrie tradizionali spesso chi avvia un’impresa appartiene a una famiglia di imprenditori, in ambito startup il  contesto familiare conta meno: solo un socio su cinque (20,6%) ha un padre imprenditore. Il report sottolinea l’emergere, all’interno del fenomeno delle startup innovative, di segnali di mobilità sociale.

DUE STARTUP SU TRE VIVONO DI RISORSE PROPRIE

La seconda sezione della survey si concentra sull’accesso alla finanza. E il 34,1% degli startupper si dichiara pienamente soddisfatto delle fonti di finanziamento a propria disposizione, con un picco nelle Regioni del Nord (38,4%) e tra le imprese con fatturato più alto (56%). Un altro 44,2% si dichiara almeno in parte soddisfatto. Come mai? In oltre tre casi su quattro il 100% dei fondi necessari per l’avvio di impresa derivano da finanze personali dei fondatori: gli startupper hanno già i soldi per avviare l’impresa (non a caso hanno più di 40 anni). Al momento del sondaggio (2016) il 90,2% delle startup si finanziava almeno in parte con risorse proprie. Una su quattro ha avuto accesso al credito bancario (tra quelle con oltre 500mila euro di fatturato il 59,7% ha ricevuto almeno un prestito), circa il 15% a finanziamenti pubblici e l’11,2% a capitale di rischio (venture capital, business angel). Le risorse proprie sono comunque la principale fonte di approvvigionamento per 2 startup su 3 e l’unica per 1 su 2; quelle finanziate unicamente da investitori con capitale di rischio sono appena il 7,3%. Il 65,7% delle imprese dichiara che la forma di finanziamento ottimale è rappresentata da un mix tra equity (capitale di rischio) e debito.

POCHI BREVETTI PER L’INNOVAZIONE

La terza sezione della survey riguarda l’innovazione. Qui le startup italiane dimostrano di essere fortemente concentrate sul cambiamento: spendono in ricerca e sviluppo in media il 47% dei costi totali annui; 1 startup su 8 arriva a spendere l’80% dei costi totali in R&D. Man mano che crescono, le startup spendono meno in ricerca: 7 su 10 tra quelle con oltre 500mila euro di fatturato destinano alla ricerca meno del 40% dei costi complessivi. Da dove nasce l’innovazione? Non dalla ricerca accademica: la survey conferma il distacco tra mondo universitario e mondo produttivo; solo il 19% degli startupper cita l’accademia come fonte dell’idea innovativa; per il 61,9% l’origine è una precedente esperienza professionale. Il 74%  degli intervistati dice di aver realizzato innovazioni di prodotto o servizio, mentre le innovazioni di processo sono realizzate dal 37,1% e sono più diffuse tra le classi di fatturato elevate. Nel 65% dei casi  si tratta di forme di innovazione incrementale, ossia migliorativa di un prodotto o di un processo già esistente, non disruptive, sottolinea il report del Mise; il 48,5% delle startup dichiara invece di aver introdotto prodotti radicalmente nuovi. In ogni caso le le startup italiane fanno poco per proteggere le proprie innovazioni: il 58% non adotta nessun meccanismo formale di tutela della proprietà intellettuale (per esempio, brevettazione) e circa un quarto non persegue nemmeno strategie informali. Gli strumenti informali sono più diffusi di quelli formali: il 46%,8 si protegge col segreto industriale.

LE RICHIESTE DELLE STARTUP: ACCESSO AL CREDITO E MENO BUROCRAZIA

La quarta sezione dell’indagine riguarda il livello di conoscenza e soddisfazione dei neoimprenditori innovativi rispetto alle agevolazioni introdotte con lo Startup Act italiano. Le misure di policy più conosciute alle aziende sono quelle riguardanti la riduzione dei costi per l’avvio d’impresa e l’accesso semplificato e gratuito al Fondo di Garanzia per le PMI, quest’ultimo noto a quasi 9 startup su 10. Altre misure che riscuotono particolare successo tra gli startupper in termini di utilizzo sono il credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo (CIR&S), gli incentivi fiscali per gli investimenti in capitale di rischio, e la maggiore flessibilità prevista per le assunzioni a tempo determinato. Una misura per cui invece molti imprenditori dichiarano scarso interesse o una conoscenza solo superficiale è la possibilità di avviare campagne di equity crowdfunding. Ben il 44% dei rispondenti ha fornito indicazioni, talvolta molto specifiche, su come migliorare il quadro normativo, per un totale di circa un migliaio di suggerimenti: la gran parte delle startup vorrebbe miglioramenti per quanto riguarda accesso al credito bancario (21,4%), imposte e incentivi fiscali (24,8%), e alleggerimento di adempimenti e altri oneri burocratici (27,9%).

Per il Mise delineare il profilo del nuovo imprenditore italiano è importante per capire come rilanciare l’imprenditorialità innovativa nel nostro paese, aumentandone il tasso disruptive, ridurre le barriere all’ingresso alla creazione di impresa, migliorare l’accesso ai capitali e affinare le competenze, ha sottolineato Stefano Firpo, direttore generale per la Politica industriale, la competitività e le Pmi del Mise, intervenuto alla presentazione del Rapporto “Startup Survey 2016″ in sede Istat. Lo studio è innovativo anche nell’impostazione, ha continuato Firpo, perché rappresenta un monitoraggio di una politica pubblica volto a misurarne obiettivamente i risultati, dando conto dell’utilizzo del denaro pubblico, come avvenuto per tutto il percorso dello Startup Act, e affinando al tempo stesso le policy dirette agli startupper: “E’ un procedimento che vuole porsi come best practice di trasparenza e di collaborazione tra più enti”.

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Patrizia Licata
Patrizia Licata

Giornalista professionista freelance. Laureata in Lettere, specializzata sui temi dell'hitech e della digital economy, dell'energia e dell'automotive. Scrivo dal 2007 anche per CorCom, parte del gruppo Digital360

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