L'INTERVISTA

Startup Act Italia 2012-2022, Corrado Passera: ora premiamo di più chi investe sull’innovazione e diamo una scossa al venture capital

Dieci anni prendeva forma il primo Startup Act italiano, promosso dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera ed entrato in un decreto nell’autunno. Apriamo una serie di incontri sulla ricorrenza proprio con lui, oggi startupper, che propone qualche idea per i prossimi 10 anni

Pubblicato il 22 Lug 2022

Corrado Passera, founder e CEO di illimity

Era l’estate del grande entusiasmo, dieci anni fa. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo Economico, “in maniche di camicia” a fine maggio aveva ascoltato nella campagna trevigiana, a Ca’Tron sede di H-Farm, le voci dell’ecosistema, promettendo prima dell’autunno un piano per rendere l’Italia un Paese ospitale per le startup. In ottobre il primo Startup Act italiano entra nell’articolo 25 del decreto legge n.179 del Governo Monti.

Dieci anni dopo lo Startup Act Corrado Passera è uno startupper di successo. Nel 2018, attraverso una SPAC, ha raccolto i capitali necessari a fondare illimity, banca tecnologica e di nuovo paradigma che nel 2019 ha debuttato sul listino principale di Borsa. In soli tre anni, illimity è diventata un gruppo da 5 miliardi di attivi grazie alla combinazione dell’esperienza del management (non dimentichiamo che Passera è stato amministratore delegato di Poste Italiane e di Intesa Sanpaolo), delle 800 persone che oggi ci lavorano oltre che delle potenzialità del digitale.

Passera è rimasto legato alla stagione dello Startup Act, è sempre stato fiero del lavoro fatto, del metodo seguito, dei risultati ottenuti. In settembre parteciperà a un evento di celebrazione dell’anniversario organizzato a Ca’ Tron da Riccardo Donadon, founder di H-Farm.

Da Corrado Passera  cominciamo una serie di incontri dedicati ai 10 anni dello Startup Act italiano, ricorrenza che è una preziosa occasione per fare un bilancio di quanto accaduto a partire dal 2012, delle cose buone fatte e di quello che restano da fare. E provare a rilanciare per i prossimi 10 anni, in questa fase di transizione nella vita politica italiana.

Passera, siamo diventati un Paese startup friendly, come era nelle intenzioni dello Startup Act 10 anni fa?

Da un punto di vista normativo direi di sì.  L’Italia è a buon punto, se pensiamo al quadro generale impostato nel 2012 e migliorato nel corso del tempo. Da tutti i punti di vista: dalle regole giuslavoristiche a quelle fiscali e amministrative, dagli incentivi a chi investe fino al funding agevolato al crowdfunding.

Che cosa ricordi particolarmente di quella stagione? 

L’unione di energie diverse. Il coinvolgimento di tutte le parti interessate, il lavoro della task force, 12 “ragazzi” che avevano pensato di aver scritto un libro dei sogni perché realizzarne la metà sembrava allora un miraggio. E invece ci siamo riusciti, con un metodo che non era consueto nella pratica politica: abbiamo guardato ai Paesi più avanzati sulla materia e abbiamo selezionato le migliori pratiche. Poi le abbiamo verificate con gli interessati, aprendo un confronto e raccogliendone i suggerimenti per integrarli in un piano efficace che potesse rispondere alle specifiche esigenze del Paese. Il Parlamento fu unanime nell’approvare il tutto.

Quale fu allora la principale difficoltà incontrata?

La reazione iniziale di sorpresa e scetticismo un po’ di tutti negli altri dipartimenti e ministeri: ma come? togliamo la regola del fallimento?  Semplifichiamo le procedure amministrative? Permettiamo di pagare con azioni i dipendenti?  Ma dopo una iniziale comprensibile resistenza ci fu grande collaborazione perché si comprese che non volevamo stravolgere il sistema, ma crearne uno pensato per una nuova categoria di aziende, le startup innovative che erano e sono necessarie per la crescita e l’occupazione, ma avevano bisogno di regole ad hoc come già succedeva nei Paesi più dinamici e innovativi.

Nel corso di questi 10 anni da diversi parti si è fatto notare che solo in Italia esiste la figura giuridica della startup innovativa. Serve ancora questa eccezione?

Sì, credo di sì e non siamo certo l’unico Paese ad averla, magari con altri nomi. Esiste una categoria di startup innovative che per competenze, capacità di ricerca e brevetti, meritavano e meritano una spinta particolare, dagli incentivi fiscali alle semplificazioni nel diritto del lavoro. Non possiamo avere dubbi: esiste un valore per tutto il sistema economico nel favorire aziende che investono in innovazione e se ne assumono i rischi. Alcune semplificazioni pensate per le startup innovative sono poi state estese anche ad altre categorie di imprese.

Che cosa faresti oggi, se improvvisamente tornassi in via Veneto?
Ipotesi dell’irrealtà. Oggi sono felicemente e totalmente concentrato sullo sviluppo di illimity. Comunque, da un Paese che vuole favorire l’imprenditoria innovativa, e qui non parlo solo di startup, mi aspetterei che venisse premiato meglio e di più chi ci crede e investe. Abbiamo già diversi strumenti efficaci, come Industria 4.0 o l’ACE, e la logica dovrebbe essere sempre la stessa: favorisco le imprese che si assumono i rischi dell’innovazione e incentivo fiscalmente chi si assume il rischio finanziario dell’investimento. Più in generale andrebbero premiate tutte le imprese che vogliono investire in innovazione, assumere, aggregarsi e capitalizzarsi.

Quindi si può essere ancora più ospitali di quanto non lo siamo diventati in questi 10 anni…
Le startup hanno fatto la fortuna di molte città del mondo: i sindaci dovrebbero fare carte false per avere tante startup nelle loro città. Andrebbero messi a disposizione spazi, di lavoro e di vita, e soprattutto andrebbe semplificata la burocrazia con percorsi facilitati e assistiti per tutto quello che riguarda permessi, autorizzazioni e licenze.  Molto spesso gli startupper assoluti, quelli che non hanno esperienze aziendali precedenti, non hanno dimestichezza con queste pratiche. Si perdono, commettono errori e così alcune buone idee non si trasformano in impresa o, semplicemente, si trasformano in imprese, ma in città più ospitali.

Un’idea che potremo proporre a qualche sindaco. Altre idee?
Nei bandi pubblici dovrebbero esserci ovunque possibili pezzi di procurement dedicati alle startup, ad aziende piccole nuove e innovative. Potrebbe essere un forte strumento di politica industriale. E poi serve una scossa nel venture capital.

Che tipo di scossa immagini per il venture capital?
Venture capital e startup sono due facce di uno stesso fenomeno e la forza del venture capital – che è in parte ancora molto “nazionale” nei vari Paesi – determina il dinamismo dell’intero ecosistema delle startup. Oggi in Italia il Venture Capital non è ancora abbastanza sviluppato. Ci sono casi di grande successo, ma in generale si tratta di un mondo ancora frammentato e che solo in pochissimi casi ha raggiunto le dimensioni critiche tipiche di altri Paesi. Per accelerare di molto le potenzialità del Venture Capital canalizzerei alcuni miliardi all’anno di fondi pubblici/parapubblici/previdenziali in alcuni fondi di fondi a cui affiderei una chiara missione: selezionare i migliori venture capitalist che operano o vorrebbero operare in Italia e aumentare velocemente la loro potenza di fuoco. Per gli investimenti in settori particolarmente prioritari questi fondi di fondi – almeno parzialmente specializzati – potrebbero “cappare” i propri rendimenti o garantire una quota più che proporzionale delle eventuali perdite. Sarebbe una formula virtuosa di collaborazione tra pubblico e privato.

Che cosa si prova a fare una startup dopo aver guidato aziende complesse come Poste e Intesa Sanpaolo?
Anche nelle aziende più grandi che ho gestito abbiamo dato vita a nuove imprese che hanno accelerato lo sviluppo complessivo: basti pensare alle compagnie assicurative che da zero hanno raggiunto i vertici delle classifiche. Partire da zero e senza la copertura della “mamma holding” è molto più ansiogeno, ma contemporaneamente più entusiasmante. Non avere legacy di alcun genere dà una libertà e una flessibilità che nei grandi gruppi è ovviamente sconosciuta.

Dove va illimity?
Va avanti velocemente sulla strada tracciata. C’è un mondo di PMI che hanno un enorme potenziale di crescita, ma sono sempre meno servite, soprattutto quando hanno problemi più o meno gravi, ma risolvibili. illimity è nata per supportare queste imprese con un modello fin da subito altamente tecnologico che supporta le tante e diverse competenze degli illimiters che sono e resteranno indispensabili. Ma oggi dobbiamo cercare di portare la digitalizzazione delle nostre procedure, dei nostri modelli di vendita ancora più avanti: l’automazione è ovvia, i canali diretti ormai anche, ma ci sono da sviluppare meccanismi di decisione che tengano conto di dati sempre più sofisticati fino ad arrivare a servizi che non ci sono ancora. Ad esempio, con la nostra piattaforma per le piccole imprese, b-ilty, arriveremo a fare credito e a dare servizi anche dove oggi i modelli tradizionali non arrivano. Ma illimity non è solo utilizzo sempre più affinato di competenze e tecnologie, è anche imprenditorialità diffusa che ha già portato a spin-off molto promettenti come Quimmo. Certamente non ci fermeremo qui.

Nel 2013 con lo Startup Act diventato legge dicevi che c’era una prateria per le startup. La vedi ancora? 
Ce n’è di più di allora.  In tutti i settori le barriere all’entrata si sono ridotte. Tecnologie, scienza ed esperienza hanno aperto nuove frontiere.  La transizione energetica e quella digitale sono acceleratori formidabili. Ai ricatti sempre più espliciti sulle materie prime andrà risposto anche con una rinnovata spinta all’innovazione e le startup saranno fattore trainante.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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