Nuove frontiere

Sharing economy e fisco, la legge aiuta o frena?

La proposta firmata dai parlamentari dell’Intergruppo Innovazione prevede che le piattaforme diventino sostituti d’imposta per gli utenti-operatori. Inevitabile che ci siano dubbi e un po’ di confusione. C’è tempo fino al 31 maggio per la consultazione. Ma forse servirebbe un intervento europeo

Pubblicato il 08 Mar 2016

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La proposta di legge sulla sharing economy firmata dai parlamentari dell’Intergruppo per l’Innovazione è il primo tentativo di regolamentare l’economia più discussa del mondo. Inevitabile che facesse discutere, e molto, anche qui in Italia. Soprattutto nella parte dedicata alla fiscalità, il cuore della questione, se si accetta il punto di osservazione dei legislatori italiani, che è quello dell’utente-operatore, cioè di chi usa una piattaforma generando magari un piccolo reddito che fino ad oggi, a dirla tutta, non è mai stato chiaro come notificare allo Stato.

Ecco perché a una settimana dalla sua pubblicazione sulla piattaforma MakingSpeechTalk si trovano una media di 4-5 commenti sparsi per il testo per ogni articolo tranne il 5, dove molti più esempi, domande e anche perplessità accolgono l’idea dei proponenti – tra i quali Stefano Quintarelli, Antonio Palmieri, Paolo Coppola, Sergio Boccadutri, Veronica Tentori – di fare delle piattaforme dei sostituti d’imposta. Se la proposta diventasse legge, i micro redditi generati dagli utenti operatori avrebbero un’aliquota fissa del 10 per cento su tutte le transazioni fino ai 10mila euro l’anno. Oltre questa soglia il reddito verrebbe invece considerato a livello professionale o imprenditoriale a tutti gli effetti, con le rispettive aliquote, per cui la somma eccedente si cumula con gli altri redditi percepiti dall’utente. Detta così, è semplice.

Redditi, non ricavi; utenti, non professionisti

Questa idea ha però generato moltissima confusione. Basta leggere i commenti aperti (non si sa quanto di stakeholder, ma c’è tempo fino al 31 maggio) per capire che molti sono preoccupati dalla possibilità che vengano confusi i ricavi dai redditi e che una piattaforma trattenga per l’operatore una cifra anche ridicola, ad esempio quando si tratta di rimborsi spesa. La piattaforma di sharing che tutti citano è Blablacar: sarà trattenuto un 10% su pochi euro di benzina pagata da un utente a un altro?

Un secondo grave dubbio che attanaglia i primi commentatori: davvero questa fattispecie di reddito è coerente con le modalità straordinariamente mobili di questo contesto? Non sarà come irreggimentarla? Poi c’è chi fa notare come molte delle piattaforme mature sono già regolate, ad esempio con la cedolare secca per gli affittuari, inoltre che questa fiscalità sembra non andare a braccetto con i voucher INPS per i lavori saltuari, che hanno franchigie differenti (fino a settemila euro). Non dovrebbero essere tutti uguali?

Vanno subito chiarite alcune cose. La prima, forse la più evidente ma a volte sfugge: la proposta di legge parla chiaramente di “reddito da attività di economia della condivisione non professionale”, ecco perché va vista come se si fosse un utente/operatore, non una piattaforma né un utente semplice. Prendendo sempre il caso Blablacar, quando la piattaforma comunicherà la propria policy all’Autorità garante della Concorrenza, come previsto dagli articoli 3 e 4, in quella occasione verrà illustrato dai gestori che il modello non genera un reddito per l’utente – il quale si limita a condividere le spese di un viaggio – dunque non sarà sottoposto al regime fiscale immaginato. Inutile preoccuparsi di franchigie o esenzioni per cifre piccole, molte piattaforme neppure generano reddito. Anche se il concetto di una soglia esente, ad esempio fino ai 1.500 potrebbe comunque essere presa in considerazione.

I voucher. Anche in questo caso, entrano in campo molti problemi che la proposta di legge non pretende di risolvere. L’abuso che si fa di questi voucher per coprire rapporti di lavoro subordinati è uno di questi La stessa Veronica Tentori, che di più di tutti ha lavorato alla materia, tiene a precisare che “il problema del lavoro è ben diverso da quello delle imposte sui redditi. La norma è fatta per invogliare a usare ad utilizzare queste piattaforme. Basta pensare a un utente, che magari prima non sapeva bene che fare: ora sa che la piattaforma trattiene il 10% per lui e lo versa al suo posto e non ha più nulla a cui pensare. Sul lavoro, su tanti altri temi coinvolti nella sharing economy pensiamo che nessuno abbia risposte, al momento; e finché non sappiamo bene di cosa stiamo parlando sarà difficile averle”.

Insomma, per gli affittuari alla Airbnb esistono già opzioni professionali, tuttavia questa aliquota bassa su redditi generati da piattaforme di sharing economy in qualità di sostituti di imposta porta alla deduzione in dichiarazione come per  tutti i lavoratori autonomi. Resta una notevole semplificazione di un mercato poco comprensibile. Per questo le piattaforme sono comunque obbligate a comunicare le loro transazioni anche qualora gli utenti operatori non percepiscano alcun reddito dall’attività svolta: la legge serve ad avere le idee più chiare sul settore, le sue dimensioni, la sua stabile organizzazione (che viene richiesta per legge).

Il registro: solo burocrazia?

Un’altra idea che è piaciuta poco ai primi commentatori della proposta di legge è quella di un  Registro elettronico nazionale delle piattaforme di sharing economy, affidando all’Antitrust il compito di regolare e vigilare sulla loro attività specificandone le competenze. In effetti qui si sente parecchio l’approccio italiano alle novità tecnologiche ed economiche, quello che privilegia il permesso al laissez-faire. L’economia collaborativa, della quale è comunque meglio non esaltare le qualità come fosse il messianico che tutti attendevano, ha dato il meglio di sé sciolta da questi obblighi. Può darsi sia un limite, oppure potrebbe essere meglio così rispetto a un surplus burocratico.

Una economia sfuggente

I redattori della proposta non considerano il registro un ostacolo insormontabile, anzi secondo loro è la premessa dello sviluppo delle piattaforme: conoscere meglio per aiutare chi vi opera e chi le utilizza. Si tratta però di una economia terribilmente veloce, collaborativa, forse anche in futuro inafferrabile tramite gli scambi P2P. La cosiddetta Gig Economy, trainata da tecnologie dell’immateriale che si interfacciano con la divisione sociale del lavoro. Un mondo deregolamentato cresciuto a velocità incredibile, tale da creare enormi concentrazioni (basti pensare alle quotazioni di Uber) fino al punto di mettere in discussione la tenuta dei mercati sui quali opera secondo le leggi dell’economia precedente.

Qui sta tutta la scommessa della proposta di legge italiana, la prima del suo genere. Non esistendo ad oggi una visione politica europea chiara e comune di cosa sia questa economia, finora si è lasciata la decisione a corti e tribunali, spesso sabotando ottime idee imprenditoriali e cancellando liberalizzazioni che sarebbe benvenute. Ma l’Italia, con la sua fuga in avanti, può davvero cambiare le cose o sarebbe meglio spostare la partita almeno a Bruxelles?

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