Caso Foodora, Bonini (Cgil): «Servono regole Ue. I sindacati? Ora capiscono meglio le trasformazioni dell’economia digitale»

Il segretario della Camera del lavoro di Milano sottolinea le novità della protesta dei fattorini della startup di food delivery («coinvolgere la clientela sensibilizza l’opinione pubblica e la stampa») e spiega come andrebbe regolato il lavoro nella gig economy: «La chiarezza contrattuale è necessaria»

Pubblicato il 26 Ott 2016

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Massimo Bonini, segretario Cgil Milano

La mobilitazione a Torino e Milano dei fattorini di Foodora, la piattaforma per la consegna di cibo a domicilio è stata una delle prime proteste messe in atto dai lavoratori di una startup. I rider, come li chiamano dall’azienda, sono sul piede di guerra in particolare per quattro motivi: la società tedesca ha deciso di compensare i fattorini non più con una paga oraria di 5,40 euro ma con un compenso a cottimo (2,70 euro), non vuole farsi carico (se non in parte, adesso) dei costi di manutenzione delle biciclette, non intende riconoscere che il loro lavoro è subordinato (in base al fatto – dicono i rider – che l’orario di lavoro è concordato, i turni sono stabiliti e il luogo di partenza per le consegne è fissato in anticipo) e utilizza, sempre stando al racconto dei fattorini, un sistema di “licenziamento” anomalo attraverso l’esclusione dai gruppi whatsapp con cui i rider si organizzano. Come si stanno muovendo i sindacati per andare incontro alle rivendicazioni di questi lavoratori della gig economy? Lo abbiamo chiesto a Massimo Bonini, segretario generale della Cgil di Milano.

Bonini, cosa sta succedendo con Foodora e i fattorini sul piede di guerra?

Conosciamo la vicenda dai mezzi di informazione. Come Cgil, stiamo avvicinando questi ragazzi, cerchiamo un contatto ma è difficoltoso. Parlare con loro è problematico perché li si può bloccare per strada, certo, ma loro hanno anche tempi da rispettare. Il grosso nodo della questione è come vengono pagati. Hanno ridotto le collaborazioni in termini quantitativi aumentando il tempo per consegna e diminuendo i compensi: la paga è passata da oraria a cottimo. È una mobilitazione che ricorda la vertenza dei pony express su cui si pronunciò il tribunale di Milano riconoscendo la natura del rapporto di lavoro che intercorreva tra loro e le aziende. Per provare a risolvere la vicenda, il punto centrale è fare chiarezza sul rapporto di lavoro (ora inquadrato attraverso co.co.co, per cui non è prevista subordinazione ndr), perché di lavoro si tratta: non si può accettare – come dice l’azienda tedesca – che si tratta di un “passatempo”. L’attività che fanno questi ragazzi è all’interno di un processo aziendale. È parte integrante del servizio che quest’impresa fornisce. Si può ragionare sui tecnicismi ma affermare che i rider sono lì a divertirsi e tenersi in forma è un errore: si potrebbe dire di qualunque lavoro. Anche facendo il muratore ci si può tenere in forma!

Quali sono gli elementi di novità di questa vicenda?

Tanti, e in molti casi valgono anche per altri fenomeni di gig economy. Provo a elencarne alcuni: il fatto che il tramite tra lavoratori e aziende siano le piattaforme digitali, la possibilità per i clienti di giudicare la prestazione di chi lavora, la presenza del rischio di impresa a carico di chi lavora per conto di queste società, la possibilità di escludere un lavoratore semplicemente rimuovendolo da un gruppo whatsapp, l’organizzazione del lavoro attraverso algoritmi, la protesta dei rider fatta coinvolgendo i clienti finali.

I clienti, come in moltissime piattaforme che rientrano nel panorama della sharing economy, possono appunto giudicare la prestazione di chi lavora. Cosa implica a livello lavorativo?

È un elemento da considerare per capire come inquadrare il lavoro. Se il cliente mi può dare un giudizio, io ho il diritto di ricevere dall’azienda strumenti che aiutino ad autopromuovermi e a migliorare la mia prestazione. Cambia il paradigma e si entra nella logica della competizione: è necessario che i lavoratori vengano edotti su come gestire queste nuove situazioni. Pensiamo anche alle piattaforme che si occupano di pulizie, create anche da aziende tradizionali che vogliono aprirsi nuovi mercati: se i lavoratori non sono assunti e formati, chi insegna loro, per esempio, a utilizzare i solventi corretti?

Ha parlato di rischio impresa caricato su lavoratori. A cosa si riferisce?

Prendiamo il caso proprio di Foodora. I fattorini hanno la loro bicicletta e il loro abbigliamento, l’azienda fornisce solo il caschetto, la borsa e la pettorina. Sembra una sciocchezza ma è come se un magazziniere dovesse portarsi da casa il muletto. L’obiezione che viene fatta in questi casi è che si tratta di nuovi lavori e nuovi modelli di business basati sul digitale. In realtà, queste vicende dimostrano il contrario: ci sono alcune contraddizioni tipiche delle forme precarie di lavoro. Tra l’altro, il digitale rende appetibile questi lavori per tutti. Negli Stati Uniti Amazon sta sperimentando la consegna tramite privati: per dirla in poche parole, io lavoro in ufficio fino alle 18 e dopo le 18 faccio consegne a casa. Si può trasformare tutto potenzialmente in un rapporto tra autonomi?

Cosa implica il fatto che per “licenziare” un lavoratore basti l’esclusione dal gruppo Whatsapp?

È scioccante, ma allo stesso tempo i singoli si riescono ad organizzare usando gli stessi strumenti come whatsapp o facebook. Il problema è nel rapporto con il mondo esterno. Un ispettore che vuole controllare dove va? Se si tratta di persone che lavorano nelle pulizie, entra nelle nostre case? I rider di Foodora e di altri servizi di food delivery almeno li vedi circolare con le loro bici.

Cosa cambia se a gestire i ritmi di lavoro è un algoritmo?

Cambia un intero paradigma. E noi come sindacato ci stiamo attrezzando per trattare con le aziende che si avvantaggiano a livello gestionale usando software per elaborare, ad esempio, i turni. Una volta l’incontro tra aziende e sindacati avveniva intorno a un tavolo. Noi stiamo cercando di essere proattivi con le imprese comprendendo l’algoritmo che utilizzano, se i turni sono distribuiti equamente e così via…

Questa situazione in Italia avviene anche a causa del Jobs Act?

La politica è in ritardo: manca una legislazione per i lavori che riguardano queste nuove formule. Vale anche per gli Usa, patria della libertà imprenditoriale: basta vedere quello che sta succedendo a New York, dove vogliono mettere restrizioni molto forti a colossi come Airbnb.

Che regole andrebbero introdotte per tutelare i lavoratori e permettere alle piattaforme di continuare a operare normalmente?

Serve innanziutto chiarezza contrattuale. Che si tratti di lavoro subordinato, autonomo o misto, l’importante è che siano forme di lavoro protette come tutte le altre. Ci hanno contattato da Camera e Senato per chiederci un confronto e capire come muoversi. Certo, è l’Europa che deve coordinare perché queste realtà viaggiano a livello globale. Sempre per fare l’esempio di Airbnb, senza voler castrare, è necessario introdurre norme che regolino bene gli aspetti fiscali così come quelli della sicurezza: è necessario che chi ospita registri le persone. Ed è necessario che si agisca a livello europeo per evitare situazioni come l’Irlanda, che ha potuto imporre un regime fiscale più competitivo alle grandi corporation globali a differenza di altri Paesi che non potevano permetterselo.

Perché i fattorini di Foodora non si sono rivolti ai sindacati?

Quei ragazzi stanno affrontando una battaglia da soli, in termini di competenze e di supporto. Mentre l’azienda, come è prevedibile, lavorerà per dividerli. Un’organizzazione come il sindacato, come la nostra, può offrire strumenti utili. Perché non si sono rivolti a un sindacato? Un po’ è a causa del clima costruito intorno alle organizzazioni sindacali. Un po’ è anche perché noi sindacati ci siamo sempre occupati più del mondo tradizionale. Le leggi su cui discutiamo sono i contratti di lavoro, lo statuto dei lavoratori… Tuttavia, stiamo cambiando. A Milano in particolare sono più di due anni che facciamo attenzione a questi nuovi fenomeni. Lo dico anche perché provengo dal settore del commercio, del turismo e dei servizi dove queste dinamiche sono più frequenti: quando si tratta di Airbnb, c’erano gli imprenditori incazzati; Amazon che consegna la spesa in un’ora ha creato non pochi grattacapi ai commerciali di Esselunga… Siamo un po’ in ritardo, per carità. Il gap generazionale c’è però abbiamo una storia alle spalle e tanta esperienza. Siamo pronti a dare assistenza. Per esempio, per andare incontro alle esigenze delle partite Iva, qui a Milano abbiamo aperto un coworking, Worx: piccolo, ma diamo supporto a chi ha bisogno di capire come si fa una contabilità, come funziona il sistema fiscale, i contributi… Stiamo lavorando tanto.

Cosa può imparare il sindacato da questo tipo di protesta? I rider hanno invocato il sostegno dei consumatori: sembra un’innovazione nell’ambito degli scioperi a cui forse i sindacati non erano ancora arrivati…

La modalità di gestione è molto interessante. Non aver paura di farsi vedere per strada è un segnale importante. Hanno avuto coraggio e questo coraggio va sostenuto da parte di tutti. Quello è il primo insegnamento. Il fatto di stimolare la clientela è stata una chiave di lettura fondamentale. È una protesta che è servita a sensibilizzare la stampa e le persone che usufruiscono di questi servizi: dietro ogni click, ci sono persone che lavorano e hanno diritto a farlo dignitosamente.

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