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Grom a Unilever, un successo per il made in Italy e una sconfitta per l’Italia

Guido Martinetti e Federico Grom in 12 anni hanno costruito un brand e un modello innovativo. Ma hanno dovuto gettare la spugna per poter far diventare una catena di gelaterie una vera industria in grado di competere a livello globale. Il senso della scelta in una videointervista

Pubblicato il 01 Ott 2015

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E anche Grom va ad aggiungersi alla lunga lista di made in Italy non più italiano. La cessione a Unilever sorpende ma non può considerarsi sorpendente. Da un bel po’ i due fondatori del gelato come una volta avevano capito che non potevano crescere da soli. E in questa videointervista a EconomyUp, esattamente due anni fa, Guido Martinetti, il frontman-agricoltore del binomio creato con Federico Grom, aveva proposto un bel ragionamento sulla necessità di sviluppare un nuovo concetto di gelato industriale di qualità. Sintetizzo per chi non volesse rivedere tutta l’intervista: abbiamo dimostrato che è possibile realizzare un prodotto con ingredienti stagionali e selezionati, li abbiamo individuati e sappiamo come lavorarli per avere il migliore risultato possibile, adesso dobbiamo standardizzare la qualità raggiunta altrimenti restiamo solo una catena di gelaterie e non possiamo diventare più grandi. Diventare un’industria, parola che scandalizza chi continua a coltivare il sogno di un’artigianalità che può andare bene per il turismo enogastronomico ma non certo per la competizione globale.

Intervista a Martinetti (Grom)

Intervista a Martinetti (Grom)

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Chi scrive adesso sui social, quasi con soddisfazione, che la vendita di Grom è la conferma che il loro non fosse davvero un gelato artigianale merita le migliaia di finte gelaterie artigianali che sottocasa gli propinano coni colorati derivati da paste acquistate chissà dove e prodotte con chissà cosa. I due ex ragazzi piemontesi hanno provato a fare qualcosa di diverso e di migliore in 12 anni ce l’hanno fatta creando un’azienda che si chiama Gromart, fattura circa 30 milioni e ha quasi 70 insegne in Italia e nel mondo. Non è poco, partendo da una botteguccia di 30 metri quadrati in piazza Paleocapa a Torino. «Ricordo che appena aperta una signora compro un cono, lamentadosi per il prezzo. Uscì e dopo pochi minuti torno indietro dicendo: è proprio buono, ne prendo un altro”, ricorda spesso Martinetti parlando degli esordi.

Il gelato come una volta non è solo una finzione di marketing, come periodicamente qualcuno rimprovera scandalizzato, è una visione e un modello di business. Martinetti e Grom hanno deciso sin dall’inizio di fare il gelato in una maniera diversa, credendo nella selezione e nella stagionlità delle materie prima, puntando sulla pulizia delle paste e così facendo hanno riportato in auge il pozzetto soppiatanto dalle vasche aperte dietro vetrine ombrose e hanno convinto milioni di signore e signori a pagare di più il loro prodotto, nonostante si dovesse fare la coda perché il conista deve ogni volta ammorbidere il gelato che senza emulsionanti si dindurisci. Insomma, anche questa è innovazione.

È grazie all’innovazione che il tandem di Torino è riuscito a creare un brand riconosciuto e affidabile da Torino a Los Angeles in un segmento affollato sia nella fascia cosiddetta artigianale sia in quella industriale; lo hanno fatto lavorando su una visione chiara tradotta in una storia facile da raccontare e da ricordare. Ma dopo l’entusiasmante marcia dei primi anni il percorso si è fatto sempre più duro, nonostante l’ingresso nel capitale di Illy e di un paio di soci del FarEast. S’è fatta la prova di un’altra possibile vita aggiungendo ai classici cono e coppetta il ghiacciolo, che però non è stato spinto quanto avrebbe dovuto per poter diventare fattore di una vera crescita industriale. Alla fine evidentemente i due fondatori di Grom hanno preferito cedere alle lusinghe e alle tentazioni di una multinazionale che ha bisogno di un marchio nuovo, credibile, soprattutto italiano, ma anche di portare al suo interno l’innovazione sviluppata nell’ultimo decennio in casa Grom.

Un successo per il made in Italy, quindi, a cui ancora una volta viene riconosciuto una forza creativa e valore commerciale, ma una sconfitta per l’Italia. Perché ancora una volta il sistema Paese non riesce a sostenere le sue migliori espressioni economiche. Che siano startup o meno, quando devono spiccare il volo finiscono preda di rapaci stranieri, nell’apparente indifferenza di quelli nazionali.

È solo una coincidenza ma colpisce: la notizia della vendita di Grom sul Sole24Ore appare di spalla, cioè accanto, al titolo principale della pagina che è dedicato a Ferrero che si avvia a raggiungere i 10 miliardi di ricavi. E allora viene spontanea la solita domanda: perché le (poche) multinazionali italiane quando comprano, comprano all’estero e raramente in Italia? La vendita di Grom a Unilever è una sconfitta per l’Italia anche perché questa volta a gettare la spugna non è l’imprenditore stanco e avanti con gli anni. Ma due imprenditori che hanno ritenuto più saggio diventare manager. Almeno per il momento.

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