Sharing economy

Dopo Uber scoppia il caso Gnammo, home restaurant sotto la lente del Mise

Dopo la sentenza su UberPop è tornata alla ribalta una risoluzione del ministero, finora passata inosservata, che obbliga chi cucina a casa propria a pagamento a presentare la Scia, dichiarazione di inizio attività

Pubblicato il 17 Giu 2015

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Dopo il caso Uber scoppia il caso Gnammo. Il vento della sharing economy che soffia sul mondo della mobilità urbana si abbatte anche su quello della ristorazione e in particolare su home restaurant e piattaforme quali appunto Gnammo, startup per prenotare pranzi o cene in case altrui attraverso Internet: su questi soggetti interviene ora il Ministero dello Sviluppo economico chiedendo il rispetto di nuove regole e in particolare segnalando la necessità della Scia, dichiarazione di inizio attività, per chi fa il ristorante in casa.

Qualche giorno fa UberPop, l’app di Uber per dare passaggi in auto in cambio di un rimborso, è stata bloccata dal Tribunale di Milano per “concorrenza sleale” nei confronti dei tassisti e successivamente l’Autorità dei Trasporti è intervenuta per chiedere al parlamento di formulare nuove regole per restare al passo con la sharing economy. Ora sta circolando sul web una risoluzione del Mise in realtà già un po’ vecchia perché datata 10 aprile 2015, ma fino a questo momento passata quasi sotto silenzio e riemersa negli ultimi giorni forse proprio grazie alle analogie con il caso Uber.

La risoluzione è stata diffusa dal ministero in risposta a una email di una Camera di Commercio che chiede di “chiarire come configurare l’attività di cuoco a domicilio e se tale attività possa rientrare fra quelle soggette alla Segnalazione Certificata di Inizio di Attività (Scia) da presentare al Comune di residenza, al fine di stabilire in modo chiaro l’iter da seguire per garantire il controllo dei requisiti professionali a tutela del consumatore finale”.

Nella stessa email venivano chieste informazioni su “apertura e gestione di un Home Restaurant, ovvero un’attività che si caratterizza per la preparazione di pranzi e cene presso il proprio domicilio in giorni dedicati e per poche persone, trattate come ospiti personali, però paganti”. A questo riguardo si specificava che “realtà di questo genere esistono già a Roma e Milano e sono presenti anche con domini su siti web”.

Risposta del ministero: “Detti soggetti sono tenuti a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione (se ne deduce: “del Comune”, ma non è del tutto chiaro ndr)”.

Il caso è stato portato alla ribalta dall’avvocato Guido Scorza, fan della sharing economy e il primo ad auto-dichiararsi non obiettivo sulla questione perché, scrive, “assisto Altroconsumo nel procedimento giudiziario che vede l’associazione a fianco a Uber. Nonostante la ricerca di obiettività sono “tecnicamente” di parte”.

Scorza rileva che il ministero arriva a “tale disarmante conclusione interpretando la disciplina dell’attività di somministrazione di cibo e bevande attualmente vigente che – sembra fatta apposta – è esattamente coetanea di quella “responsabile” della recente chiusura di UberPop. Un’altra legge, vecchia di oltre vent’anni che, questa volta, metterebbe fuori legge – se l’interpretazione del Ministero dello Sviluppo economico fosse corretta – l’attività svolta dalle centinaia di migliaia di cuochi in erba e, magari, anche stellati che negli ultimi mesi hanno deciso di aprire le porte delle loro case ad amici – o futuri tali – e conoscenti, incontrati sulle pagine delle tante piattaforme di cosiddetto social eating che, da un po’ pullulano online e che, probabilmente, trovano in Gnammo il testimonial tutto italiano”.

Al di là delle singole prese di posizione, appare chiaro che si stanno aprendo due fronti: quello dei protagonisti della sharing economy e quello delle autorità pubbliche e degli enti regolatori, alle prese con uno scenario in costante cambiamento. A questo punto la partita si gioca sulle regole. Vedremo quali saranno quelle applicate al social eating.

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