Open Innovation: moda o sostanza? È la domanda ricorrente ormai da qualche tempo, che si pongono sia i manager di azienda sia gli osservatori e ricercatori dei fenomeni economici.
L’Osservatorio Startup Intelligence, dal suo punto di vista privilegiato, lo ha chiesto a più di 250 imprese italiane, ottenendo interessanti risultati, appena presentati al Politecnico di Milano, lo scorso 30 novembre.
Open innovation: in Italia la fa solo il 28% delle imprese, ma cresce l’interesse per le startup
In Italia il numero di imprese che adotta consapevolmente e in modo sistematico approcci di Open Innovation è ancora limitato, ma chi lo fa ne è soddisfatto, non abbandona l’approccio ma lo struttura con metodi sempre più completi e sistematici.
Le motivazioni per le quali ricorrere all’innovazione aperta sono molteplici. Per citare il suo maggiore esponente Henry Chesbrough, queste sono le principali: stabilire nuove partnership, esplorare nuovi trend tecnologici, identificare nuove opportunità di business, accelerare tempi e costi di Ricerca&Sviluppo, ridurre i rischi nei progetti di Innovazione.
Dai dati della Ricerca, il 28% delle imprese intervistate dichiara di adottare esplicitamente approcci di Open Innovation per la gestione dell’Innovazione Digitale, di cui il 7% da più di 3 anni; a questo si aggiunge circa un terzo di imprese che ha in programma di farlo.
Una impresa su cinque dichiara di non essere interessato e altrettanta percentuale non conosce il fenomeno. La buona notizia è che, degli oltre 250 rispondenti, nessuno ha approcciato l’Open Innovation per abbandonarla in seguito.
L’innovazione aperta fa riferimento a due distinti paradigmi. Da un lato l’Innovazione Inbound (o Outside-in) per incorporare stimoli esterni di innovazione all’interno dei processi dell’impresa, dall’altro lato l’Innovazione Outbound (o Inside-out) per esternalizzare stimoli di innovazione interna che possono trovare utilizzo in iniziative esterne.
Le pratiche di Inbound Open Innovation sono più frequenti rispetto a quelle di Outbound Open Innovation: la percentuale di imprese che pratica l’Inbound è circa il 23%, mentre solo il 9% delle imprese segue l’Outbound.
Il 73% delle imprese che adotta il paradigma dell’Inbound Open Innovation sviluppa collaborazioni con Università e Centri di Ricerca e il 56% svolge azioni di Startup Intelligence. La metà realizza Call4Ideas e Contest esterni. E’ elevata anche la percentuale di azioni di Partner scouting su fornitori tradizionali e la conduzione di Hackathon, Datathon e Appathon, fanalino di coda l’uso del Crowdsourcing. Un quadro quindi di aziende seriamente impegnate nell’aprire i propri confini attraverso tutte le leve operative messe a disposizione dall’Innovazione aperta di tipo Inbound.
Si riduce invece la pratica di Inbound Innovation secondo leve più strategico-finanziarie come i Corporate Incubator e Accelerator e le Acquisizioni, circa una azienda su cinque, e all’ultimo posto l’istituzione di Corporate Venture Capital per entrare nell’equity di iniziative imprenditoriali, poco più del 10%. Questo dato, certamente di natura anche culturale, è riconducibile alla ormai storica mancanza di fondi per l’innovazione nella nostra economia, soffocata da quasi dieci anni di crisi economica ininterrotta.
Molto meno perseguite sono le azioni di Outbound Innovation, dove solo il 9% dei rispondenti totali alla Survey ha praticato un’azione. Questo è un dato in linea con alcune rilevazioni a livello internazionale dello stesso Chesbrough, in cui si evince una predominanza nelle azioni di Inbound Open Innovation rispetto a quelle di Outbound. Il 22% di queste imprese sviluppa Joint Venture con altre realtà imprenditoriali, il 12% sviluppa Modelli di Business a piattaforma, una percentuale poco inferiore pratica il Licensing dei propri prodotti. Seguono con percentuali molto ridotte attività di donazione, Spin-off e Vendita di brevetti.
Dalle analisi emerge una scarsa diffusione di cultura sul tema a livello imprenditoriale e come l’approccio all’Open Innovation sia spesso inizialmente informale e sperimentale, attraverso un percorso lungo e complesso, trial-and–error. Solo successivamente si formalizza una strategia, si definiscono ruoli e processi, e si prova a individuare indicatori di performance. Le principali difficoltà in questa trasformazione risiedono infatti nelle imprese stesse, imbrigliate in inerzie organizzative e culturali, ostaggio di modelli operativi burocratici e lenti.