COVID-19/ L'OPPORTUNITÀ

Coronavirus: e se lo considerassimo anche un (costoso) test di smart city?

Che cosa c’entra il coronavirus con la smart city? Le azioni per contenere il contagio hanno, indirettamente, reso l’aria di Milano e della Lombardia più respirabile. È aumentato il ricorso allo smart working e sono cresciuti gli acquisti online. Da una brutta esperienza la dimostrazione che si può cambiare modello…

Pubblicato il 26 Feb 2020

Coronavirus

E se quel che siamo costretti a fare a causa del coronavirus fosse un grande, e involontario, test di smart city? Anche dalle esperienze più negative si possono ricavare spunti di riflessione o veri e propri insegnamenti, come predica la cultura del fallimento praticata dalle aziende più avanzate. Forse è ancora presto per capire cosa l’epidemia del nuovo coronavirus possa insegnare all’umanità, ma intanto, tra la valanga di notizie preoccupanti emerse in questi giorni, c’è un segnale di tutt’altro tenore: le azioni per contenere la diffusione del virus sembrano aver indirettamente reso l’aria di Milano e della Lombardia più respirabile. Forse l’emergenza coronavirus potrebbe diventare un test su larga scala per una smart city meno congestionata, meno inquinata e più ecosostenibile.  Forse questa smart city “obbligata” alla quale sono costrette le Regioni focolaio del virus (Lombardia e Veneto) potrebbe offrire spunti per la città del futuro. E qualcuno, in effetti, ci sta già ragionando.

Smart city “post coronavirus”: e se usassimo di più lo smart working?

Come si vede dal sito dell’Arpa Lombardia, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, dal 17 febbraio al 24 febbraio il livello di PM10 (il particolato, un insieme di polveri causate principalmente da processi di combustione) a Milano e in tutta la Lombardia è parzialmente diminuito, soprattutto in alcune zone.

Non è un cambiamento drastico, ovviamente, eppure fa riflettere. E qualcosa del genere è già avvenuto in Cina. Come rileva Business Insider, nel grande Paese asiatico l’epidemia ha comportato, come effetto indiretto, un taglio di emissioni di CO2 pari a 100 milioni di tonnellate metriche. Questo grazie al combinato di fabbriche che lavorano a ritmi che non superano il 30% della normale operatività e del traffico pressoché azzerato nel periodo di grandi spostamenti del Capodanno lunare.

In questo contesto ha avuto un ruolo rilevante nelle zone focolaio italiane l’uso massiccio di smart working per contenere la diffusione del contagio, che ha letteralmente svuotato strade e autostrade (oltre a molti mezzi pubblici). Numerose le aziende che hanno adottato il lavoro a distanza, o telelavoro, nelle sue varie forme e con diverse gradualità: Unicredit, Vodafone, Heineken, Luxottica, Zambon, Michelin, Assimoco, Henkel,  Sky, Tim, Wind Tre, Condé Nast Italia, Giorgio Armani , Tod’s e molte altre. In questo frangente lo smart working è stato adottato e favorito anche da Digital360 (società che fra le altre cose edita anche EconomyUp) che lo utilizza da tempo e non solo in situazioni  di emergenza.

Mariano Corso, Responsabile Scientifico degli Osservatori Smart Working e Cloud Transformation della School of Management del Politecnico di Milano, ha segnalato in questi giorni come “l’emergenza coronavirus in Italia possa diventare un grande test di resilienza grazie allo smart working”.

E se, proseguendo il filo del ragionamento, il lavoro agile non fosse più solo l’eccezione? O, perlomeno, se questa innovazione nell’organizzazione aziendale diventasse per molti una nuova filosofia di gestione del lavoro e delle risorse? La stessa riflessione che ha fatto il vice ministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli: “Lo smart working  – ha scritto in un post su Facebook – potrebbe renderci pronti a fare un salto culturale, forse anche nel pubblico impiego, perché telelavoro non è lavorare di meno, ma meglio. È una di quelle soluzioni che può e dovrebbe diventare stabile, anche dopo che avremo superato questa fase”.

Certo, i danni che l’emergenza (e in qualche caso la psicosi) sta procurando sono ancora tutti da calcolare (sul mercato dei beni e dei servizi, e su quello finanziario), ma le reazioni al coronavirus stanno mostrando i vantaggi di alcune modi innovare di vivere le città, senza che ci sia la necessità per farlo e la paura che spinge a farlo. Certo che, quando si chiuderà questa parentesi, sarà interessante vedere ad esempio se la produttività in alcuni settori è calata o no…Per il momento c’è la testimonianza su Twitter di Ignazio Rocco di Torrepadula, Founder & CEO di Credimi, società di soluzioni di finanziamento e factoring digitale per pmi.

Smart city “post coronavirus”: più sharing mobility

Secondo l’Environmental Protection Agency, i veicoli a motore producono circa la metà degli inquinanti come i COV, l’ossido di azoto e il particolato. Il 75% delle emissioni di monossido di carbonio proviene dalle automobili. Nelle aree urbane, le emissioni nocive per autoveicoli sono responsabili di una percentuale compresa tra il 50 e il 90 percento dell’inquinamento atmosferico. La chiusura delle scuole in alcune Regioni d’Italia ha causato certamente una riduzione nell’utilizzo di automobili per gli spostamenti casa-scuola. Difficile fare una stima. In ogni caso, dall’osservazione del fenomeno, sorge un quesito: e se fossero messe in atto strategie e politiche pubbliche di mobilità in grado di incentivare i vari modi per evitare questo tipo di spostamenti? Un esempio è il car pooling, la condivisione di passaggi tra utenti (immaginiamo forme strutturate di car pooling per genitori che portano i figli alla stessa scuola). A Milano, per la verità, già molto si sta facendo nell’ambito della sharing mobility e della micromobilità: modalità innovative che, in ultima analisi, contribuiscono a rendere il traffico meno congestionato e favoriscono una migliore qualità ambientale.

Smart city “post virus”: più home-schooling e smart learning

A causa del coronavirus sono state chiuse le scuole e sono rimasti bloccati in casa oltre tre milioni di studenti in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Le scuole rimarranno chiuse fino al primo marzo, entro il fine settimana sarà deciso se prolungare il periodo di chiusura o riaprire: è possibile anche una riapertura a scacchiera in alcune zone non raggiunte dal virus. Ma se l’epidemia di coronavirus rappresentasse una spinta indiretta alla digitalizzazione delle istituzioni scolastiche in Italia? “Durante il picco dell’epidemia – ha scritto la virologa Ilaria Capua – le scuole potrebbero lasciare a casa i propri allievi e sostituire l’insegnamento diretto con piattaforme tipo Skype o FaceTime”. Ma per quanto tempo? Non essendo possibile valutare la durata di questa quarantena didattica, forse anche l’Italia, come sta avvenendo in Cina – in cui circa 50 milioni di studenti su 200 milioni stanno ricevendo formazione a distanza – potrebbe affrontare l’emergenza mettendo in atto, come risorsa su cui puntare, l’e-learning e l’homeschooling. La stessa ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha annunciato che si sta attivando per la didattica a distanza. La formazione online è ancora poco praticata (se non, a volte, del tutto ignorata) nel nostro Paese, tranne alcuni casi. Un esempio: la School of Management del Politenico di Milano, che ha portato gran parte della formazione su piattaforma digitale. Come lo smart working può rappresentare una modalità win-win per aziende e dipendenti, così lo smart learning potrebbe favorire docenti e alunni. La strada è ancora lunga, ma una smart city che si rispetti ha bisogno anche di una scuola più innovativa e digitale.

Una città dove tutto (o molto) si ordina online

Secondo uno studio diffuso due anni fa dalla società di ricerche di mercato Dealroom, l’Italia è in fondo alla classifica europea per uso degli ordini online, che rappresenterebbero solo il 5,3% del totale e un valore di mercato di 200 milioni rispetto a un totale di 2,5 miliardi. Gli italiani, insomma, ordinerebbero meno consegne a domicilio degli altri Paesi. Ma l’emergenza coronavirus sembra aver smosso qualcosa. Intanto nei negozi fisici: in varie città e territori i supermercati sono stati presi d’assalto e gli scaffali svuotati. La virologa Ilaria Capua ha suggerito: “Piccole azioni quotidiane come smettere di fare la spesa possono avere una grande incidenza nel blocco della diffusione del virus: si potrebbe ad esempio potenziare la consegna a domicilio”. E così è avvenuto. La necessità ha spinto verso l’innovazione: il sito di Carrefour ha registrato un traffico dieci volte più alto rispetto al normale, l’app di Esselunga è andata in crash per la sovrabbondanza di richieste, Amazon ha dovuto chiedere ai fornitori più merci.

Cosa ci insegna in questo caso l’emergenza coronavirus? Che potremmo pensare di potenziare  e favorire le consegne a domicilio online sia dal lato delle aziende sia dal lato degli utenti: sono comode e, in ultima analisi, anche meno inquinanti, perché un solo fattorino è in grado di portare la merce a diverse persone che altrimenti avrebbero usato le proprie automobili. Probabilmente, nella smart city del futuro, saranno in molti a ordinare online. Senza paura. Nemmeno, si spera, del coronavirus.

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Luciana Maci
Luciana Maci

Giornalista professionista dal 1999, scrivo di innovazione, economia digitale, digital transformation e di come sta cambiando il mondo con le nuove tecnologie. Sono dal 2013 in Digital360 Group, prima in CorCom, poi in EconomyUp. In passato ho partecipato al primo esperimento di giornalismo collaborativo online in Italia (Misna).

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