Rete unica per la banda larga, perché è una svolta ma non la panacea per l’Italia digitale

L’accordo fra TIM e CDP per la Rete Unica è un passaggio importante per l’economia digitale. Ma è solo l’inizio di un percorso che non sarà semplice. Fatta la Rete, resterà da fare l’Italia Digitale se non si lavora sul cambiamento culturale all’interno delle imprese e della PA. Come avverte la stessa ministra Pisano…

Pubblicato il 01 Set 2020

Reti Banda Larga

Sembra (quasi) fatta la Rete Unica: adesso c’è l’ok di Tim e Cassa Depositi e Prestiti alla creazione di AccessCo, la nuova società della rete che dovrà portare la fibra ad alta velocità in Italia. Una buona notizia per il Paese, per l’economia digitale, per l’innovazione. Ma c’è quel quasi che va tolto dalle parentesi, perché non sarà né facile né veloce realizzare il progetto (sono ancora numerosi i dettagli da chiarire…) e soprattutto sarebbe ingenuo credere che basterà la ormai mitica bul (banda ultra larga) per risolvere il digital divide, recuperare i ritardi italiani e avere una Paese che nella classifica della digitalizzazione possa occupare un posto adeguato alla sua storia e alla sua dimensione socioeconomica: l’Italia è terzultima nell’indice DESI 2020, quindi significa che la strada da fare è molta e non può essere percorsa nello spazio di un incontro a Palazzo Chigi e successivi annunci (leggi qui che cos’è il Digital Economy and Society Index)

Rete unica, una storia cominciata 15 anni fa

La svolta di fine agosto per arrivare a una rete unica è certamente un passaggio importante che arriva dopo 15 anni che si parla di una rete unica, appunto. Era il 2006 quando un consigliere del premier Romano Prodi propose la soluzione dello scorporo della rete TIM, creando non pochi sconquassi. Nel corso di questi tre lustri ci sono state proposte, ripensamenti, persino protocolli di un’intesa che finora non si è mai trovata.

La ragione dice, quindi, che non è il caso di farsi coinvolgere dagli entusiasmi di questi giorni o da titoli di giornali che sembrano annunciare la rete entro il marzo 2021. Diciamo che, se andrà tutto bene, entro quella data sarà completato l’iter per arrivare alla costituzione e alla governance della società della rete, che oggi si chiama AccessCo. E non sarà semplice visto i soggetti coinvolti, tutti ovviamente e giustamente attenti ai propri interessi, e i diversi passaggi previsti tra conferimenti e fusioni per arrivare all’esito finale.

Il ritardo della Bul (banda ultralarga)

È solo un’affermazione della retorica politica sostenere che la rete unica servirà alla ripresa post Covid. C’è da augurarsi di no, perché altrimenti vorrà dire che la ripresa sarà molto spostata in avanti. La rete unica (e la fibra ad alta velocità che dovrà portare li dove finora non è arrivata o non è stata portata per scarso interesse di mercato) è un asset strategico di un nuovo modello economico di cui si parla da tempo e di cui la pandemia ha mostrato la necessità. Il piano banda Ultra Larga di Infratel (società in-house del Ministero dello Sviluppo Economico) ha compiuto già 5 anni: avrebbe dovuto essere completato nel 2020 portando la fibra ottica, quella vera, in oltre 6000 comuni italiani direttamente in casa. Per diverse ragioni è ritardo di circa 3 anni e, poco prima del lockdown si prevedeva la conclusione entro il 2022. Sempre nel 2015 nasceva Open Fiber, che si è aggiudicata il bando per cablare l’Italia.

Che cosa cambia con la Rete Unica per la banda larga

Le delibere dei Cda di Tim e Cdp di lunedì 31 agosto sono adesso il necessario punto di partenza di un percorso che solo gli entusiasmi partigiani possono far credere già concluso. Tanto è vero che in un comunicato ufficiale si legge che  “nelle more dell’implementazione di questo progetto, Cdp resta fortemente impegnata nella realizzazione del piano industriale di Open Fiber, iniziativa che ha consentito l’avvio di investimenti volti a sviluppare la rete in fibra fino alle case degli italiani”.  Quindi, per il momento, l’operatore all’ingrosso che ha la missione di fare l’Italia digitale, almeno per quanto riguarda l’infrastruttura, Open Fiber, su cui deve prendere una decisione il socio Enel prima che quanto fatto fino a oggi possa confluire nella nuova società della rete unica.

Al di là del termine poco liberale (forse bisognerà trovare altro modo per indicare la rete unica, appunto), AccessCo permetterà di concentrare gli investimenti, che devono essere importanti, oggi dispersi fra diversi operatori e portare la fibra anche in quelle aree fino ad oggi trascurate. Con una logica “pubblica” quindi, un po’ come il servizio postale universale, anche se la società sarà privata. Un’alchimia che richiederà stregoni molto abili e lungimiranti per evitare che la miscela diventi esplosiva o finisca in una nuvola di fumo. Adesso bisogna augurarsi che tutto funzioni e proceda in tempi ragionevoli perché  la diffusione di una connettività fino a 1giga è la precondizione per uno sviluppo diffuso delle attività digitali, sia a livello consumer sia business, con il conseguente moltiplicarsi delle opportunità per l’innovazione e le startup.

Che cosa serve oltre la Rete Unica

Il lockdown ha dimostrato che le tecnologie possono diventare un fattore di diseguaglianza sociale: quando in casa mancano la connessione o i dispositivi, non è possibile “frequentare” la scuola digitale o fare smart working. L’obiettivo di un Paese, e di chi lo governa, è evitare che questo non accada e che l’accesso ai canali digitali sia quanto più ampio possibile. Su come arrivarci, ci sono idee diverse. Certamente l’intervento pubblico è necessario e sarà determinante se ben gestito nelle fasi di attuazione e di gestione.

Non illudiamoci (e non illudiamo), però, che il processo di trasformazione digitale di un Paese si possa attivare semplicemente con la costituzione di una nuova società, qualche accordo finanziario e una benedizione politica. Abbiamo ricordato l’indice DESI ma c’è anche un recente report dell’ISTAT (Digitalizzazione e tecnologia nelle imprese italiane) che ci dice quanto il tessuto economico italiano sia ancora generalmente poco sensibile alle tecnologie digitali o quanto le viva come “accessorie” e non strategiche per il proprio sviluppo. Un solo dato: nel 2018 solo un’impresa (con più di 3 addetti) su 10 ha messo in vendita beni o servizi su almeno una piattaforma digitale con evidentemente un misero impatto sul fatturato (il 2,4%).

Le aziende non sono tutte uguali (vedi qui la classificazione ISTAT per grado di maturità digitale): tutte hanno fatto qualche investimento sulle principali tecnologie (soprattutto a livello infrastrutturale, meno sulle applicazioni) e percepiscono che il digitale ha solo vantaggi e pochi rischi, sono sempre di più quelle che si attrezzano per sperimentare magari con le startup e cercano l’innovazione. Sono comunque ancora poche, mediamente il 10%, le aziende che dichiarano di voler investire su Internet delle Cose, Big Data, Stampa 3D o Tecnologie Immersive. Al primo posto, però, nei piani di investimento c’è la fibra ottica (il 50%).

Questi dati sono relativi al periodo pre-Covid ed è quindi grande il rischio che la crisi possa aver alterato i piani di molte imprese. C’è per la conferma di una domanda di connettività di qualità ma anche la sensazione di un approccio digitale senza strategia, di una percezione della tecnologia ancora scollegata dal business. Non sarà certo un’infrastruttura a colmare questo ritardo culturale delle piccole e medie imprese italiane. Così come le continue semplificazioni che complicano nella Pubblica Amministrazione.

Del resto anche la ministra dell’Innovazione Paola Pisano in un’intervista al quotidiano La Stampa mette in guardia”Oltre le infrastrutture vanno aumentate le competenze digitali dei cittadini”. E aggiunge: “Anche imprese private ed enti locali devono contribuire a diffondere sistemi e funzionalità adeguati ai tempi”.  Insomma, bisogna darsi una mossa e non limitarsi ad applaudire eccitati per la costruzione dell’autostrada digitale, che è una condizione necessaria ma non sufficiente. Altrimenti fatta la Rete Unica, resterà da fare l’Italia digitale.

(articolo aggiornato il 2 settembre 2020)

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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