L'ANALISI

Open innovation: la sfida in azienda non è generare idee, ma capire quali seguire

L’avvento di Internet e delle tecnologie digitali ha ridefinito profondamente lo scenario socio-economico. Per evitare il declino le aziende devono far ricorso a un network di attori esterni, cioè all’open innovation. Ma non è la panacea di tutti i mali: serve una visione comune e obiettivi di medio-lungo termine

Pubblicato il 09 Nov 2018

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Il web rappresenta ad oggi il mezzo ideale attraverso cui diffondere contenuti e informazioni al grande pubblico, contribuendo fortemente allo sviluppo e al successo di una nuova generazione di prodotti e servizi “science and technology-driven”. Molto spesso tali proposizioni, denominate in letteratura “Big Bang Disruptions” (Downes & Nunes, 2013), si caratterizzano per tassi di adozione a crescita esponenziale e cicli di vita molto più brevi rispetto alla classica curva a campana teorizzata da Rogers (Rogers, 1962).

Per far fronte alla crescente sfida connessa all’innovazione di prodotti e servizi, le aziende si sono trovate ad affrontare una difficile equazione: da un lato si riduce il ciclo di vita e quindi di ricavi connessi ai prodotti e servizi esistenti, dall’altro si è costretti ad investire sempre più risorse in R&D per innovare e rimanere competitivi sul mercato. La progressiva crescita degli investimenti e la contemporanea contrazione dei ricavi ha provocato quindi un’inevitabile riduzione dei margini in conto economico, in un quadro competitivo sempre più globale e caratterizzato da elevati tassi di dinamicità e incertezza.

In uno scenario così complesso, pensare di poter mantenere un approccio passivo e difensivo verso l’innovazione significherebbe per qualsiasi azienda arrendersi ad un inevitabile declino. Esempi di aziende che non sono state capaci di innovare i loro prodotti partendo da quote di mercato significative ce ne sono molti. Basti pensare a Garmin e TomTom, aziende leader mondiali nel settore dei dispositivi di navigazione GPS che hanno assistito inermi al tracollo della propria market capitalization rispettivamente del 70% e dell’85% dopo soli due anni dalla commercializzazione delle applicazioni di navigazione per smartphone.

Innovare con l’open innovation

Di fronte ad uno scenario così complesso quali possono essere dunque le possibili vie a disposizione delle aziende oggi per innovare in modo più rapido e più efficiente?

La risposta a tale quesito c’è, funziona, e si chiama Open Innovation. La definizione che ci ha dato Henry Chesbrough nel 2006 è illuminante: “L’open innovation è un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso ad idee esterne, così come a quelle interne, ed accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche.”

Come indicato da Chesbrough il modello dell’innovazione chiusa, che ha fatto grandi in passato molte multinazionali, non è più efficace al giorno d’oggi: la co-presenza dei fattori precedentemente citati hanno contribuito infatti ad erodere gravemente l’efficacia di tale strategia.

I giganti del nuovo millennio conducono solo poche attività esclusivamente all’interno dei propri centri di ricerca, affidandosi invece ad un esteso network di attori esterni (talvolta anche competitor) per trovare nuove idee, sviluppare nuovi prodotti e generare in questo modo nuove fonti di ricavo. In questo scenario le startup ricoprono un ruolo importante dovuto alla loro intrinseca capacità di ipotizzare prodotti e servizi innovativi e di sperimentarli rapidamente e concretamente sul mercato.

L’open innovation non è la panacea di tutti i mali

Ma attenzione, non si può intendere l’Open Innovation come la panacea per tutti i mali.

Infatti, la complessità maggiore in progetti d’innovazione di questo tipo risiede proprio nel riuscire a gestire in maniera ottimale la fitta rete di attori, iniziative e collaborazioni che si vengono inevitabilmente a generare.

La gestione di tale complessità non è da sottovalutare e il rischio di banalizzare iniziative intraprese in tal senso è davvero forte: secondo i risultati raccolti da PwC nel suo Innovation Benchmark 2017, circa il 54% delle aziende che ricorrono all’Open Innovation faticano a colmare il gap tra strategia di business e strategia di innovazione. Una grande difficoltà cui vanno incontro i manager è quella di dover agire sulla base di un nuovo mindset, in grado di travalicare i tradizionali confini dell’azienda e di mettere a punto forme di collaborazione virtuose capaci di rispettare e valorizzare le peculiarità di ogni singolo attore coinvolto. Ma il saper operare in modo corretto in ecosistemi di innovazione non è sufficiente.

Parafrasando quanto brillantemente raccontato da Roberto Verganti nel suo libro “OverCrowded: Designing Meaningful Products in a World Awash With Ideas”, la vera sfida oggi per le aziende non è riuscire a generare nuove idee ma capire, in un mondo pieno di idee, quale di queste vale veramente la pena perseguire. Senza avere quindi chiara in testa una vision comune e degli obiettivi di medio-lungo termine, l’efficacia e la capacità di generare valore da parte dei progetti di open innovation viene inevitabilmente meno.

Solo dopo aver compiuto questo primo passo si potrà quindi pensare di esportare progetti d’innovazione fuori dai propri confini aziendali e individuare sul mercato competenze, asset e contesti che non si è in grado di creare e sviluppare al proprio interno, coerentemente con una logica “Inside-Out” o “Outside-In” e nel rispetto di un modello di Innovazione “Open”.

Open innovation, il caso Apple – FingerWorks

Uno dei casi maggiormente di successo, trattando tematiche di Open Innovation, è sicuramente quello che ha visto protagonisti Apple e FingerWorks, startup di Newark in Delaware: Il colosso di Cupertino ha avuto il merito di capire prima di altri le potenzialità della tecnologia multi-touch, riuscendo in maniera ottimale a trovare il modo di integrare, gradualmente, il loro prodotto all’interno degli iPhone e dei trackpad dei suoi portatili. L’azienda, insieme ai brevetti legati alla tecnologia sviluppata, è stata quindi acquisita da Apple nel 2005 favorendo il successo del prodotto che ha ormai rivoluzionato completamente le nostre abitudini.

Nella moltitudine di strumenti, metodologie, ed interlocutori a cui sono esposte le aziende che vogliono aprire il proprio modello di innovazione, è quindi utile avere degli interlocutori di riferimento. Vedremo nel prossimo articolo chi sono, come operano e quali fattori sono determinanti per fare in modo che il risultato nato dalle collaborazioni sia più di una semplice somma degli addendi.

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Stefano Mainetti, CEO Polihub
Stefano Mainetti, CEO Polihub

È Chief Executive Officer del PoliHub, il business incubator del Politecnico di Milano. Docente del MIP-Politecnico di Milano nell'area "Management of Information System", è anche direttore dell'area “Innovazione Digitale” del Fondazione Politecnico di Milano.

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