Il mondo del venture capital in Europa sta vivendo una trasformazione silenziosa ma profonda. Non è la solita storia di unicorni, mega-round o scaleup da prima pagina. È, piuttosto, il cambiamento che emerge quando tre attori – che per anni si sono mossi su binari quasi paralleli – cominciano finalmente a dialogare: family office, corporate e startup studio.
È questo il quadro che si è delineato con chiarezza durante l’ultimo Bakers Connect di Startup Bakery organizzato alla Galleria Deodato Arte di Milano, trasformato, tra tele pop-art e tintinnio di calici, in una conversazione schietta e profonda sul futuro del venture capital. Ospite Angela De Giacomo – un esordio di carriera come tax advisor e international tax specialist in M&A deals, poi virato verso il mondo dei family office – per la presentazione del suo libro “The Venture Capital Playbook”.
Più che un semplice confronto sul venture capital, la discussione ha fatto emergere qualcosa di più interessante: il modo in cui l’Europa sta ripensando l’intero modello di accesso all’innovazione. E, per la prima volta, come questi tre mondi – famiglie, imprese e venture builder – sembra abbiano scoperto di avere bisogno gli uni degli altri.
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Il direct investing dei family office
Come molti sanno, i family office sono strutture private dedicate alla gestione del patrimonio di famiglie ad alta ricchezza. Coordinano investimenti, pianificazione finanziaria, aspetti fiscali e successori, spesso con un approccio altamente personalizzato. Possono servire una sola famiglia (single family office) o più famiglie insieme (multi-family office). Secondo l’indagine 2025 dell’Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano, al 1° giugno di quest’anno quelli attivi in Italia sono saliti a 244, con una crescita del 10,4% rispetto al 2024. Si tratta di 126 single family office, 96 multi-family office e 22 strutture di origine bancaria che mettono in comune competenze e servizi per più famiglie.
Per molto tempo questii family office hanno affrontato il venture come una sorta di estensione naturale dei loro investimenti tradizionali: qualche deal diretto, qualche startup promettente, spesso su segnalazione informale o network personali. Il risultato? Nel migliore dei casi, performance altalenanti. Nel peggiore, un ritiro silenzioso dall’asset class.
“Molte famiglie, spinte dalla curiosità o dal desiderio di diversificare, si avvicinano a questo mondo convinte che l’esperienza imprenditoriale basti per affrontarlo. Ma il venture non è un affare di intuito: è un mestiere di metodo, rete e pazienza. Non è raro che i family office inizino investendo direttamente, perdano capitale e solo dopo scoprano i vantaggi di modelli di co-investimento o di strutture più professionali”.
Oggi questa transizione delineata da Angela de Giacomo – dal “capitale di passione” al family capital consapevole – sta cambiando la fisionomia del mercato. Sempre più investitori privati cercano infatti formule che uniscano la flessibilità del capitale personale con la disciplina dei fondi. E ii modelli ibridi diventano così la nuova frontiera.
“Made in Germany by Italians”, come ama definirsi, Angela de Giacomo non usa mezzi termini quando ne parla: “Il venture capital è irresistibile quando funziona, ma spietato quando non lo è”. E, in merito proprio ai family office, precisa che il problema non è la mancanza di capitali. “È piuttosto la mancanza di struttura. Le famiglie pensano al venture come a startup e investimenti diretti, dimenticando tutto il resto dell’ecosistema: startup studio, fondi, fund of funds”.
In altre parole, troppo rischio, troppo presto, con troppi pochi strumenti. Nonostante la crescita numerica, molti family office italiani si ritrovano ad affrontare il tema della professionalizzazione.
La lentezza delle corporate e la cultura anti-innovazione
Se da un lato i family office peccano di eccesso di entusiasmo verso il direct investing, le corporate europee soffrono del problema opposto: sono così prudenti da risultare spesso incapaci di cogliere opportunità di innovazione.
Giacomo Mollo, co-founder e partner IN3 Ventures, lo ha espresso con lucidità: “Manca sofisticazione quando si tratta di unire insight di corporate e family office nel mondo startup. C’è un vero e proprio gap culturale”.
Le imprese vogliono innovare, ma secondo i loro tempi. Vogliono startup, ma senza il rischio delle startup. Risultato: molte iniziative di corporate venture capital europee restano sulla carta, prive di impatto reale. “Le storie di investimenti corporate andati male sono tantissime. Quelle che finiscono sui giornali spesso offuscano ciò che invece molte aziende stanno costruendo in modo serio”.
Eppure qualcosa sta cambiando.
La pressione competitiva internazionale, l’accelerazione dell’AI e il dinamismo della nuova generazione di manager stanno portando le aziende a chiedere percorsi più strutturati, più controllabili, più vicini ai loro processi industriali.
Il ruolo degli Startup Studio: il ponte che mancava
Ed è qui che entra in scena il terzo attore di questo nuovo triangolo: lo Startup Studio, “un ponte tra investitori, family office e mondo startup che permette di ridurre il rischio di accesso a questa asset class”, come ricordato da Angelo Cavallini, COO di Startup Bakery.
Gli startup studio, infatti, non accelerano startup nate altrove: le costruiscono da zero, con team professionali, governance solida, modelli replicabili, partnership industriali già integrate. Risolvendo così due problemi strutturali: per i family office la troppa incertezza e troppa casualità nel deal flow; per le corporate, la mancanza di velocità e difficoltà a lavorare con startup fragili.
Non a caso, come sottolineato anche da Francesco Russo, strategic investor e partner del VC Fund di Finint Investments (ELTIF Capital for Innovation), sempre più investitori istituzionali stanno guardando al modello VC-to-PE o VC-to-Exit che permette percorsi di crescita più lineari e uscite più chiare: “Non tutti gli imprenditori vogliono affrontare una sequenza infinita di round di finanziamento: molti preferiscono costruire aziende solide e arrivare a un’uscita tramite acquisizioni strategiche o private equity, evitando un’eccessiva diluizione e la pressione costante dei round successivi. Questo modello potrebbe adattarsi meglio alla mentalità europea, offrendo ai founder un percorso di crescita più chiaro, sostenibile e orientato ai risultati”.
Collaborare con gli startup studio consentirebbe quindi di colmare questo divario: in fase di sourcing, perché le startup nate all’interno di uno studio operano già con un elevato livello di professionalità, disciplina e una chiara focalizzazione sull’esecuzione e sull’exit; in fase di portfolio support, quando un investimento già avviato necessita di guida operativa o di un percorso di professionalizzazione per raggiungere i risultati attesi.
Si tratta di esecuzione strutturata, risultati misurabili e mercati con chiare prospettive di crescita ed exit, piuttosto che di inseguire round di investimenti fini a sé stessi.
Europa tra bisogno di velocità e pazienza
Un tema cruciale, tuttavia, resta: l’Europa fatica a trovare un equilibrio tra la velocità dell’innovazione e la pazienza richiesta dagli investimenti early-stage. E se il mercato statunitense permette errori e fallimenti rapidi, quello europeo tende a punirli in modo definitivo.
Anche in questo caso il modello startup studio, combinando disciplina, metodologia e riduzione del rischio, consente di essere applicato in maniera più agile: “Quello che vogliamo portare sul mercato è un asset che possa essere integrato facilmente anche dalle PMI, non solo dalle grandi corporate, perché in alcuni casi le prime riescono a muoversi anche più velocemente delle seconde. Per questo con il modello orientato alla early-exit ci rivolgiamo direttamente ai decisori, ai CEO in primis”, ha concluso Cavallini.
È il segno di un’evoluzione tipicamente europea, più attenta all’execution e alla sostenibilità che alle valutazioni record. Il venture nel Vecchio Continente si sta trasformando in una versione più private equity del futuro: meno hype, più impatto reale.
L’innovazione che diventa patrimonio
Emerge quindi un quadro chiaro, ovvero che si sta formando una nuova alleanza, ancora informale, ma sempre più evidente tra i family office, che cercano accesso strutturato all’innovazione; le corporate, che cercano pipeline affidabili e replicabili; gli startup studio, che costruiscono aziende con governance e processo, non con improvvisazione.
È una convergenza nata più dalla necessità che dalla teoria. Una convergenza che ha il potenziale di trasformare l’Europa da follower a protagonista in settori come AI, robotica, deep tech, sostenibilità. E che, soprattutto, introduce un principio di buon senso che da troppo tempo mancava nel venture europeo: meno casualità, più metodo; meno intuizione, più esecuzione; meno hype, più sostanza. Una grammatica condivisa fatta di metodo, network e intelligenza collettiva.
Se si intende colmare il divario con Stati Uniti e Cina, aumentare i capitali non basta. Serve cambiare il modo in cui quei capitali si muovono. Il nuovo triangolo – family office, corporate e startup studio – potrebbe essere la struttura portante del venture capital europeo nei prossimi dieci anni. Un’evoluzione del venture capital che nasca non da nuovi fondi ma da nuove forme di disciplina.
Un modello più sobrio, più disciplinato, più vicino alla nostra cultura industriale. Un modello che finalmente permette alla tecnologia di diventare non solo innovazione, ma patrimonio. Come ha concluso Angela De Giacomo, “il venture non è trovare il prossimo unicorno, ma trovare il proprio modo di giocare la partita”.







