Come diceva Thomas Edison, il genio è 1% ispirazione e 99% traspirazione (ovvero sudore): per questo motivo la persistenza è una delle caratteristiche più importanti di imprenditori e innovatori.
Innovazione in azienda, quando cambiare idea
Senza una buona dose di tenacia non si possono affrontare le difficoltà, accettare i rischi e imparare dagli errori. Ma in un contesto di risorse non infinite, quale è il confine tra la caparbietà e la testardaggine quando si fa innovazione in azienda? Quando va mantenuta la rotta, e quando invece è il momento di effettuare un pivot o addirittura di rinunciare ad un progetto per dedicarsi ad altro, dimostrando elasticità e adattabilità?
Non bisogna farsi illusioni: lavorando su trend emergenti e nuovi mercati potenziali, le cose possono andare storte in molti più modi di quelli in cui possono andare per il verso giusto.
Se a livello tattico è quasi sempre vantaggioso poter cambiare idea e tentare più approcci diversi (basti pensare all’A/B testing per il marketing digitale), a livello strategico troppa variabilità rischia di far disperdere le energie e perdere l’allineamento con gli obiettivi aziendali. Ovviamente l’equilibrio migliore dipende da fattori che variano caso per caso, ma nella mia esperienza ci sono alcune domande che possono aiutare ad inquadrare correttamente la questione, per non trovarsi poi a dover essere reattivi di fronte agli ostacoli.
Domanda 1: qual è il livello di ambizione?
Prima domanda: qual è il livello di ambizione a cui si punta? Se si sta validando una soluzione più iterativa e vicina all’attività primaria di impresa, sarà utile mantenere un buon livello di adesione all’ipotesi sperimentale, per raccogliere dati sufficienti a supporto della sua applicabilità o meno (da confrontare con le metriche tradizionali).
Viceversa, se si stanno esplorando opportunità nuove e dirompenti, sarà necessario essere molto flessibili e pronti a cambiare direzione anche più volte, per prioritizzare la codifica degli apprendimenti e l’identificazione degli “unknown unknowns” – ovvero di ciò che ancora non sappiamo di non sapere – in modo da maturare quanto più velocemente possibile una visione robusta per guidare le successive fasi di sviluppo.
Domanda 2: quanta capacità di adattamento c’è in azienda?
Seconda domanda: di quanta capacità di adattamento dispone l’azienda? Tanto più il processo di allocazione delle risorse è rigido e scandito dai ritmi del business as usual, quanto più bisognerà essere pronti a pianificare e assumersi impegni consistenti in termini di risorse, per non rischiare di ritrovarsi senza benzina a metà del guado.
In questi casi si deve puntare a mantenere un buon grado di coerenza verso i piani anche in condizioni di visibilità ridotta, pena una perdita di credibilità nel breve periodo. Diversamente, se si ha un maggiore grado di autonomia decisionale, oppure se c’è il mandato a lavorare in modalità Agile (con tutti i necessari processi di supporto), ci si potrà permettere di rivedere priorità e perimetri man mano che emergono nuove evidenze, allocando di conseguenza le risorse in modo più graduale e dinamico.
Domanda 3: qual è il livello di tolleranza al rischio?
Terza domanda, indistricabile dalle precedenti: su che livello di tolleranza al rischio si può contare? Secondo Seth Godin, “se il fallimento non è un’opzione, allora non lo è nemmeno il successo”: se l’aspettativa è completamente deterministica, non si sta realmente facendo innovazione, ma solo implementazione.
Chiediamoci: i progetti sotto la nostra responsabilità sono molto concentrati, oppure c’è spazio per una diversificazione in logica di portafoglio? Come reagiranno i colleghi e i responsabili ad eventuali cambi di direzione in corsa?
E infine: una iniziativa cancellata prima di raggiungere i risultati sperati sarà una vergogna da nascondere sotto il tappeto, o verrà piuttosto vissuta come una occasione preziosa per raccogliere e diffondere gli apprendimenti con una analisi post mortem?