L'INTERVISTA

Il caso Gellify: il Direttore Generale spiega come aiuta le aziende a scegliere le tecnologie delle startup

“Per creare nuovi prodotti e servizi, oggi le aziende attingono dal bacino di tecnologie disponibili” dice a EconomyUp Gianluca Giovannetti, direttore generale di Gellify. Che spiega come la sua società affianca le imprese nella ricerca di innovazione e cita e esempi di collaborazioni vantaggiose tra aziende e startup

Pubblicato il 19 Dic 2022

Gianluca Giovannetti, Direttore Generale di Gellify

Gellify, l’innovation factory conosciuta per il processo brevettato di “gellificazione”, neologismo per indicare il dare forma più solida a idee e società liquide del mondo B2B, incarna un modello di investimento in innovazione che mette al centro le tecnologie dirompenti e crea un ponte tra le imprese e le startup potenzialmente game-changer. È uno scambio tra il mondo corporate e le fucine di innovazione che realizza una vera open innovation. Ma che cosa significa veramente open innovation in Italia oggi? Ne abbiamo parlato con Gianluca Giovannetti, direttore generale di Gellify.

Industrial internet of things and industry 4.0 concept
Come si realizza il collegamento tra grande impresa e startup?

Preferirei parlare di collegamento tra le imprese e le tecnologie. Il termine startup a volte viene associato a realtà molto piccole con proposition poco stabili o comunque può essere generico. Quindi: investiamo in tecnologie. Che possono anche coincidere con una startup, ma quello che ci interessa è l’asset, o il prodotto, che pensiamo sia capace di cambiare veramente i processi corporate. Noi di Gellify affianchiamo le aziende per creare nuovi prodotti e servizi da factory digitale o addirittura nuovi business attingendo dal bacino di tecnologie che riteniamo abilitanti e che possano diventare mainstream.

Le aziende italiane hanno difficoltà ad accogliere le innovazioni delle startup?

È un processo in evoluzione. Per fortuna stanno diminuendo le varie call for startups, call for ideas, eventi di networking e contaminazione, eccetera. Non sono inutili, ma non li chiamerei open innovation. Sono iniziative per conoscersi, ma non bastano per portare un risultato: spesso si finisce producendo un PoC di una nuova tecnologia, ma senza arrivare a un’applicazione industriale. Invece, con le recenti pratiche come il corporate venture building, siamo di fronte a una open innovation di uno stadio più maturo, che presuppone sì più rischi o, meglio, più assunzione di responsabilità, ma dà anche maggiore concretezza. Nascono nuove attività, persino società digitali ex novo. Insomma, paragonerei le prime iniziative al fraseggio a centro campo e le seconde a fare gol.

E le operazioni di exit industriale?

Sono una strada ideale in Italia. Si tratta dei casi in cui alcune società innovative vengono acquisite da realtà della stessa industry, non da società finanziarie. Queste operazioni all’interno dell’industria sono un enorme stimolo alla crescita della cultura sia in ottica di innovazione tecnologica che di attività di corporate venture capital. Oppure costituiscono una potente forma di accelerazione per colmare un gap verso i competitor o aumentare il vantaggio competitivo. Noi osserviamo un trend in atto in questo ambito ed è fondamentale focalizzarsi su operazioni concrete che creano valore.

Ci può fare degli esempi?

Nel caso dell’operazione industriale ci capita spesso di vedere realtà corporate che, nelle loro attività M&A in cui Gellify le affianca, mettono gli occhi su realtà piccole e innovative. È un salto culturale imprenditoriale significativo. Prima si guardava più alla “massa critica” dell’impresa target – come fatturato o numero di dipendenti e clienti – anziché al prodotto sviluppato. Ora è il contrario: il focus è sulla tecnologia innovativa. In ambito venture building aziendale posso citare Poggipolini, un’azienda attiva da decenni nel settore del motorsport, specializzata nelle tecnologie per il racing, e che si è poi estesa al business dell’aerospazio e, infine, ha lanciato con Gellify una sua nuova venture, Sens-In. Sens-In ha sviluppato la vite intelligente, un prodotto che unisce elettronica e sensoristica alla meccanica. È il perfetto esempio di un business digitale lanciato da un’azienda consolidata per occuparsi di un’attività adiacente, in questo caso a quelle dell’automotive e degli aerei. È il primo esempio di venture building aziendale realizzato in Italia.

Quali sono le opportunità e i tranelli del corporate venturing in quest’epoca di trasformazione digitale, competizione serrata e grande velocità del cambiamento?

I tranelli e i rischi sono gli stessi di sempre nel fare impresa. Ma il contesto è diverso: è più difficile pianificare nel medio-lungo periodo, imprevedibilità e accelerazione del cambiamento sono lo scenario in cui ci muoviamo oggi. L’opportunità per le aziende è invece quella di fare uno straordinario training di imprenditorialità. Tutto questo però richiede una straordinaria chiarezza dal punto di vista strategico: occorre approcciare il mondo del venture con cristallina pianificazione.

In concreto che cosa serve?
Competenze, assunzione di responsabilità e determinazione. Con l’ulteriore elemento del fattore tempo: è vero che qui non c’è posto per l’improvvisazione strategica, ma è altrettanto vero che a volte “presto è meglio di bene”, se no qualcun altro può cavalcare un nostro errore. Il digitale ha abbassato le barriere all’ingresso in tanti settori, compaiono nuove venture che operano in settori diversi da quelli dell’azienda che le ha lanciate e occorre stare attenti, se così si può dire, ai sorpassi da destra.

I soldi da investire ci sono in Italia?

Ora ci sono i fondi del Pnrr insieme agli altri fondi europei e, se i piani andranno nella direzione prevista, vedremo ricadute positive in tre settori chiave da digitalizzare: cambiamento climatico, educazione e sanità. Qui è necessario investire con i soldi del Pnrr perché serve uno sguardo di medio-lungo periodo. Per quanto riguarda gli investimenti privati guidati da private equity e venture capitalist, non c’è ancora un bilanciamento tra le idee straordinarie su cui investire e i soldi a disposizione. Nel senso che ci sono più soldi che idee.

Ed è un bene, perché abbiamo tanti capitali per far scalare le idee, o un male perché non abbiamo abbondanza di idee ad alto impatto?

Vedo entrambi gli aspetti e occorre trovare un bilanciamento tra i due. Ma direi che esistono buone opportunità per l’Europa per far crescere di più alcune aziende e stimolare più idee. Ci sono settori chiamati a trasformarsi radicalmente – quelli che hanno una supply chain articolata analogico-digitale – e potranno beneficiare al massimo della trasformazione digitale e green. L’Italia e Europa sono nel momento migliore per innovare.

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Patrizia Licata
Patrizia Licata

Giornalista professionista freelance. Laureata in Lettere, specializzata sui temi dell'hitech e della digital economy, dell'energia e dell'automotive. Scrivo dal 2007 anche per CorCom, parte del gruppo Digital360

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