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Perché è sbagliato applicare alle startup le metriche di valutazione tradizionali

Le startup sono aziende ma non come le altre. Sono costruite per generare crescita esponenziale e monetizzare l’investimento vendendo o andando in Borsa entro 10 anni. Bisogna averlo chiaro altrimenti non si comprendono alcune valutazioni e i conseguenti investimenti

Pubblicato il 16 Nov 2021

Photo by Luke Chesser on Unsplash

Venerdì scorso sono stato invitato a parlare a un convegno dal titolo “Le PMI. tra crescita economica, evoluzione tecnologica e nuovo diritto” organizzato all’Università degli Studi di Milano Bicocca e ho potuto toccare con mano come, nel mondo delle finanza tradizionale e delle professioni, sia oltremodo complesso comprendere le specificità delle startup. La tentazione sottesa è quella di cercare di applicare metriche di valutazione tradizionali in base al principio che le startup sono aziende come le altre.

Le startup sono aziende ma non come le altre

Soprattutto se sono venture capital backed. Perché in questo caso entrano in una prospettiva totalmente diversa. Che è quella di remunerare il capitale in esse investito con multipli imponenti.

Per dare un’idea prendo a prestito da Jason Lemkin un calcolo spannometrico che porta a determinare in 10 miliardi il valore che un fondo di 250 milioni deve realizzare all’exit (l’assunzione è di avere una percentuale media – fully diluted – del 10% al momento della exit e attendersi un ritorno di 3-4 volte il capitale investito).

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Visto dalla prospettiva della startup significa che un round da 10 milioni richiede una exit da 400 milioni e oltre per essere ripagato. Ossia 40 volte tanto. Anzi di più se si considera che il profilo di rischio e il tasso di mortalità degli investimenti (entrambi alti) portano a una distribuzione asimmetrica dei ritorni. È quello che viene definito come “power law”, ossia il fatto che solo una piccola percentuale del portafoglio restituirà il capitale investito.

Per visualizzare quest’ultimo punto riprendo una analisi che Mind the Bridge aveva fatto insieme a Crunchbase un paio di anni fa. Nello specifico avevamo studiato oltre15 mila acquisizioni di startup sull’orizzonte 2010-2017. I risultati sono abbastanza auto-esplicativi:

  • il 71% delle startup acquistate non ha restituito il capitale investito
  • il 54% è Fire Sales (ossia il prezzo di vendita è inferiore al 50% del capitale raccolto)
  • il 16% restituisce tra 1 e 3 volte il capitale investito (indi poor performance se rapportata al rischio)
  • il 8% è venduto con un multiplo di 3/10X (perfomance buona)
  • il 5% è costituito dalle cosiddette “wild ones” (10+x multiple)

La performance di un fondo passa attraverso il 5-8% delle aziende del portafoglio

Con un caveat: i dati in esame considerano solo startup che hanno fatto una exit via acquisizione (e quindi non si considerano quelle andate a gambe all’aria – i cosiddetti write-off, che sono una percentuale significativa – ma neanche le eventuali IPO, che potrebbero dare un boost alla performance del portafoglio). Non credo che tuttavia i dati cambierebbero significativamente.

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In conclusione: le startup sono costruite per generare exponential growth e monetizzare l’investimento via acquisizione (M&A) o quotazione in borsa (IPO) su un orizzonte di 8-10 anni (che è la finestra di un fondo di Venture Capital). Ovviamente la portata dell’obiettivo (oltremodo sfidante) include l’assunzione di un profilo di rischio molto accentuato.

Tutto ciò toglie molto significato agli indicatori finanziari nel periodo di costruzione (quali “trailing revenue”, per non parlare di EBITDA) e sposta il peso della valutazione sugli indicatori prospettici (“forward revenue”) che tuttavia mostrano gap rilevanti con i dati storici (trailing appunto).

Questa specificità manda in crisi i modelli di valutazione tradizionali che faticano, ad esempio, a giustificare un prezzo di acquisizione di una decina di milioni per una azienda con EBITDA di qualche centinaia di migliaia di euro, se non addirittura negativo.

Il prezzo è giusto? Difficile a dirsi quando non contano i numeri correnti ma quelli che verranno. Ma nel dubbio restare immobili non è una opzione.

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Alberto Onetti
Alberto Onetti

Chairman (di Mind the Bridge), Professore (di Entrepreneurship all’Università dell’Insubria) e imprenditore seriale (Funambol la mia ultima avventura). Geneticamente curioso e affascinato dalle cose complicate.

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