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StartupAct: il venture capital ha fallito, ora serve la mano pubblica

Di recente l’Ocse ha dato la sua valutazione indipendente sul quadro normativo per le startup voluto nel 2012 da Corrado Passera. La policy ha funzionato nel creare un ambiente più favorevole alle giovani imprese. Ora però si deve passare alla fase 2, quella relativa agli investimenti. E urge un intervento del governo

Pubblicato il 04 Ott 2018

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È stata pubblicata la valutazione indipendente dell’OCSE sullo “startup act” italiano, ossia sul quadro normativo e ciò che si è generato a partire dall’introduzione del Decreto Legge 179 del 2012, che ricordiamo fu intensamente voluto da Corrado Passera, uomo dalla carriera politica breve ma direi – per il nostro piccolo mondo degli investimenti in innovazione e startup – particolarmente incisiva (grazie Corrado, a te merito e onore!).

Come sappiamo, la policy mira a creare un ambiente più̀favorevole alle piccole startup innovative attraverso una serie di strumenti complementari. Si è già molto scritto sui punti salienti del rapporto e gli effetti della Policy sulle startup, qui brevemente riepilogati:

  • Fatturato. Le imprese aumentano il proprio fatturato, il valore aggiunto e gli attivi di circa il 10-15% rispetto alle startup simili che non ne hanno beneficiato, o che ne hanno beneficiato a uno stadio di sviluppo successivo.
  • Leva debito. Le imprese hanno una maggiore probabilità di ottenere prestiti dalle banche.
  • Capitale di rischio. Le imprese hanno una probabilità più elevata di ricevere investimenti in capitale di rischio.

Insomma, un ottima fase 1 con discreti impatti sul sistema: complessivamente come sappiamo gli effetti dello “Startup Act” sono positivi, anche alla luce del costo relativamente contenuto della policy (poco più di 30 milioni di euro). Certo, come Paese siamo partiti con un incredibile ritardo rispetto agli nostri vicini europeii, ma tant’è, meglio tardi che mai si usa dire.

Ora è tempo di una fase 2, dalle dimensioni (leggasi, investimento pubblico) molto più corposa, che sia concentrata soprattutto sulla creazione e consolidamento di una rete strutturata di investitori professionali e dedicati in capitale di rischio, a monte della filiera, dove oggi si registra il più grande dei fallimenti di mercato.

Lo stesso report riporta questa conclusione: “l’esiguo numero di operazioni di venture capital in Italia sembra dipendere principalmente dalla mancanza di offerta di finanziamenti, piuttosto che da una mancanza di domanda in tal senso.”

Lo avevo denunciato già tempo fa (qui l’articolo originariamente pubblicato su Startupbusiness): dobbiamo porre le condizioni per far nascere nuovi fondi di investimento (anche e soprattutto con la logica di dare fiducia ai first fund – first team), aiutarli a raccogliere capitali sul mercato privato grazie al ruolo di anchor investor da parte del pubblico. Sono gli stessi studi sull’impatto del Government Venture Capital a dimostrare che “la forma di investimento che ha l’impatto migliore sulle performance delle imprese è quella effettuata da gruppi misti di investitori pubblici e privati.”

Non si tratta di tirare per la “giacchetta” il governo, ma semplicemente di prendere definitivamente atto che il Venture Capital in Italia è un vero e proprio fallimento di mercato di proporzioni gigantesche e quindi va aiutato, forse anche totalmente “sussidiato” per qualche anno. Fino a quando avremo un totale investito per anno pari ad almeno 1 miliardo di euro l’anno (ricordo che ad oggi ci “arrabattiamo”, come spesso sono solito dire, tra i 100 e i 200 milioni di euro l’anno, a seconda delle statistiche con cui ci si confronta).

Oggi abbiamo un Governo che intende dire e fare la sua parte, con determinazione e soprattutto visione: che poi la soluzione operativa sia una “piattaforma” o un fondo di fondi (sul modello vincente regionale per esempio di FARE Venture nel Lazio, di cui ho il piacere di essere nel Comitato di Investimento) poco importa. Si è però compreso che devono affluire capitali importanti ai gestori di fondi di investimento (ossia chi poi investe nelle startup), e ciò deve capitare in tempi rapidi!

Vediamo ora di commentare alcune delle raccomandazioni elaborate nella Policy e la loro reale attuabilità nel contesto storico in cui ci troviamo.

  1. Ribilanciare finanziamento di debito vs equity. “Mentre la grande maggioranza delle startup sembra beneficiare in misura sostanziale del fondo pubblico di garanzia per i prestiti bancari, la letteratura economica suggerisce che il finanziamento in equity è più adatto alle startup innovative ad alto potenziale di crescita e ad alto rischio.”

In linea di principio è corretto che troppo debito non fa bene alle imprese; tuttavia nel caso del mercato italiano, per effetto del fatto che sono pochissimi gli operatori di venture capital in grado di investire in startup, può essere vitale avere operatori finanziari in grado di erogare rapidamente finanziamenti classici rientranti nella categoria del “debito” per far si che tutte le startup abbiano la possibilità di crescere, uscire dalla fase di startup e consolidarsi come una qualunque impresa normale. Abituiamoci a due concetti: primo, essere una startup (cosa che oggi un millenial direbbe “fa fiko!”) dovrebbe rappresentare la fase iniziale, non si può restare tali per tutta la vita; secondo, non tutte le startup (anzi proprio poche) possono pensare di ricevere l’investimento da un fondo di venture capital.

  1. Migliorare i criteri di ammissibilità, che “potrebbero essere ulteriormente migliorati e affinati per aumentare l’impatto della policy, orientandola verso le startup che hanno più bisogno di supporto.”

Su questo punto si discute da sempre: i grandi detrattori della categoria delle startup innovative sostengono che in realtà tra le 9.000 imprese iscritte al Registro Speciale ben poche sono startup o PMI innovative. Io non lo so se sia vero oppure no (o comunque, non vi dirò qui la mia opinione), non avendole ancora passate in rassegna una per una (e non basta guardarsi i bilanci); però sappiamo che la finalità all’inizio era molto istituzionale. Ossia si voleva includere il più possibile per cominciare a far sì che cominciasse ad emergere il fenomeno e arrivare ad interessare non solo gli addetti ai lavori ma anche una platea più ampia e variegata di interlocutori. Quindi ci stava all’inizio avere maglie più larghe; ora potremmo ipotizzare di stringere i requisiti, accettando il rischio di ritrovarci con un numero più esiguo di startup ma con una qualità intrinseca più elevata. Ma comunque, rassegniamoci: sempre poco saranno quelle finanziabili dal Venture Capital.

  1. Il marketing e l’effetto di segnalazione: “lo “Startup Act” può essere utilizzato come “brand” di successo per informare gli imprenditori, attuali e potenziali, che l’ecosistema è in grado di supportarli. […] In più, la sezione speciale del registro delle imprese dedicata alle startup innovative potrebbe essere utilizzata per selezionare delle imprese che potrebbero beneficiare di una sorta di accesso “fast-track” al procurement per l’innovazione. Le startup potrebbero così raggiungere più rapidamente il loro mercato finale e accelerare il flusso delle loro entrate, il che potrebbe fornire a sua volta maggiori incentivi ai venture capitalist a effettuare investimenti early-stage nelle startup italiane.”

Marketing e comunicazione lo sappiamo fanno miracoli: le Camere di Commercio potrebbero farsi promotori di politiche di effettivo matching tra le imprese più mature e le startup e PMI innovative, affinchè i discorsi di open innovation non siano meri strumenti di marketing aziendale che al più servono per organizzare delle call o degli hackaton in università. Troppe sono le startup che vengono “portate a spasso” da grandi big dell’industria, le fanno lavorare per mesi su improbabili PoC (cifr. Proof of concept) e poi le lasciano andare senza investire degnamente sul progetto o sulla startup stessa. Che poi questo aumenti il tasso di investimento dei fondi di venture capital nelle startup non credo: dal mio punto di vista, sono altri i fattori che inducono un fondo a scegliere una startup piuttosto che un’altra (e qui c’è ampio spazio per un altro articolo per il blog Eureka!).

  1. Necessità di rendere l’imprenditorialità innovativa accessibile agli outsider. […] “Il rapporto ha evidenziato che l’imprenditorialità in ambito universitario sembra essere meno sviluppata in Italia rispetto ad altre importanti economie europee, e misure volte a ridurre le barriere all’ingresso possono essere utili anche per affrontare questo problema”.

E qui siamo all’apice del fallimento del mercato: se in Italia infatti fare Venture Capital è difficile – nel senso più ampio del termine, ossia trovare l’idea e gli imprenditori giusti su cui fare soldi da restituire agli investitori – fare Technology Transfer  – nel senso di investire in idee che nascono in università e nei centri di ricerca per “trasferirle” sul mercato”, sempre con l’obiettivo di fare soldi – è quasi da considerare un’impesa eroica. Ma che va perseguita, con ostinazione: in fondo ce lo ripetiamo da sempre, i nostri ricercatori sono i migliori sulla piazza nel pubblicare (certo un po’ meno nel brevettare), abbiamo “solo” bisogno di capitali istituzionali per far nascere fondi dedicati. Chi scrive auspica quindi che la brillante iniziativa di ITATech, ossia la piattaforma di investimento in fondi di technology transfer promossa da Fondo Europeo degli Investimenti e Cassa Depositi e Prestiti, non solo possa portare a termine i suoi primi investimenti quanto prima ma che possa anche essere rifinanziata, magari con una dotazione ben più ampia di quella iniziale di 200 milioni di euro.

La raccomandazione è una sola: che ci sia una virtuosa “mano pubblica” a salvare il mercato del venture capital italiano. In fondo, come già riportato in questo articolo, “senza un sistema che favorisce l’innovazione, il Paese non potrà che sprofondare in una decrescita dal quale non si riprenderà più”.

* Fonte e detentrice del copyright dei contenuti riportati: OCSE, “La valutazione dello startup Act Italiano”, OECD Science, Technology and industry policy papers, settembre 2018.

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Stefano Peroncini
Stefano Peroncini

Venture Capitalist e Serial Entrepreneur. CEO di EUREKA! Venture SGR e membro del Comitato di Investimento di FARE Venture (Fund of Funds da 80Ml€ di Lazio Innova). È stato fondatore e CEO di Quantica SGR, fondo che ha investito nella startup biotech EOS, ceduta all’americana Clovis Oncology per 470ml$

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