Il caso

«Chiudere Londra ai cittadini Ue? Un boomerang per le startup»

L’annuncio del ministro May di voler sbarrare le frontiere anche ai comunitari senza lavoro suscita reazioni anche nell’ecosistema. Gli italiani della Tech City sono discordi. Da chi pensa che imprese e fondi potrebbero focalizzarsi su altri mercati a chi ritiene che il governo parli così solo per sollecitare una nuova Schengen

Pubblicato il 31 Ago 2015

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Che in Gran Bretagna fosse pieno di euroscettici era cosa nota. Ma che si arrivasse anche a pensare di proibire l’accesso ai cittadini Ue senza un lavoro sembrava improbabile.

Almeno fino a quando, domenica scorsa, la ministra britannica degli Interni, Theresa May, ha annunciato dalle colonne del Sunday Times che il governo di Sua Maestà vuole chiedere a Bruxelles una riforma della libera circolazione in territorio comunitario. Obiettivo: aprire le porte del Regno Unito solo agli immigrati dai Paesi dell’Unione europea in possesso di un regolare lavoro e sbarrare le frontiere a chi invece arriva a Londra e dintorni a caccia di un impiego (e di un futuro migliore).

Se si tratta di una provocazione o di una reale intenzione lo si scoprirà probabilmente già al vertice straordinario Ue convocato il 14 settembre a Bruxelles per fronteggiare l’emergenza migranti.

Ma al di là del significato politico di questa affermazione e della sua concreta fattibilità, non si può non pensare alle conseguenze che una decisione del genere avrebbe sulla crescita economica inglese e sullo sviluppo di uno degli ecosistemi più fiorenti del pianeta.

La questione è: chiudere le porte agli stranieri Ue senza lavoro non rischia di danneggiare la Tech City e tutti i luoghi di innovazione in cui molti dei talenti imprenditoriali provengono dai Paesi del Vecchio Continente?

Secondo Matteo Rizzi, co-fondatore di FinTech Stage e General Partner di SBT Venture Capital, i rischi di una chiusura delle frontiere sono “evidenti”. In particolare nell’ambiente fintech, di cui Rizzi è esperto, si potrebbe verificare una “frammentazione dell’ecosistema”, una cui parte potrebbe “focalizzarsi su altri mercati, che peraltro si stanno attrezzando in modo massiccio proprio per contrastare il predominio londinese”. Per ecosistema, in questo caso, l’ideatore di FinTech Stage intende non solo i lavoratori, “ma anche le infrastrutture, di capitale e di formazione di impresa, direttamente collegate a questo mondo”. Insomma, un boomerang.

Sugli stessi toni è anche Paolo Malaguti, imolese, fondatore della startup Aston Corp, che ha sede proprio nella capitale britannica all’interno dell’incubatore Level39. “Se il Regno Unito facesse questa mossa, potrebbe fare un autogol perché è un Paese che beneficia enormemente di lavoratori europei”, dice. “Certo, io sono arrivato in Uk con un’offerta di lavoro già in tasca ma non c’è dubbio che un giro di vite sulla migrazione da parte dei Paesi Ue in Inghilterra renderebbe più difficile lavorare qui a Londra. Un esempio lo abbiamo con i ragazzi indiani – e parlo di programmatori – che hanno difficoltà a ottenere il visto. Noi quindi avremmo lo stesso problema: il mercato del lavoro diventerebbe molto più rigido e enormemente sfavorevole a cittadini non del Regno Unito: dubito che il governo faccia un passo del genere nell’immediato, vorrebbe dire avere più di un piede fuori dall’Ue”.

Stefano Tresca, avvocato e mentor di acceleratori di rilievo come Level39, è invece di parere diverso. “Credo che il messaggio sia stato esasperato da parte della stampa”, dice. “Il ministro non ha detto che da oggi in poi gli immigrati comunitari non possano più entrare in Inghilterra. Ha sottolineato l’esistenza del problema e ha ricordato che non ci sono limiti giuridici che impediscano a un Paese membro Ue come il Regno Unito di valutare delle limitazioni agli accessi di cittadini comunitari”.

Tresca conosce la materia da vicino anche perché è uno dei protagonisti degli acceleratori e dei venture capital della Tech City interpellati dall’esecutivo britannico proprio per parlare di imprenditoria e innovazione in vista di una nuova regolamentazione dell’immigrazione.

Il governo sa benissimo che non può permettersi di chiudere le porte all’immigrazione di qualità. Se è vero che tre cittadini britannici su quattro ritengono unpopular il tema dell’immigrazione, è anche vero che nella Tech City, uno dei luoghi del Regno Unito in cui si generano più posti di lavoro, il 96% dei partecipanti a un sondaggio si è detto favorevole agli immigrati”.

Cameron e i suoi non starebbero pensando a una stretta sull’immigrazione che vada a intaccare anche i luoghi dell’innovazione. Il problema a questo punto è: come fare selezione?

La mia sensazione – risponde Tresca – è che il Regno Unito non stia pensando a mosse unilaterali ma che voglia ridiscutere temi come Schengen (a cui peraltro Londra non aderisce, ndr) e la libera circolazione proprio a Bruxelles e insieme agli altri Paesi Ue che invocano con più forza una nuova regolamentazione della materia, a cominciare da Germania e Francia. In prospettiva, invece, se a Bruxelles non dovesse muoversi nulla, si potrebbe andare verso una parziale limitazione in cui sarebbero privilegiati i cittadini Ue che parlano inglese e che siano in possesso di competenze e lavori che rispondono alle esigenze della comunità produttiva, tra cui appunto la Tech City”.

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