TRASFERIMENTO TECNOLOGICO

Researchpreneur, il ricercatore-imprenditore in 5 punti secondo Flavio Farroni (e il metodo MegaRide)

Quali caratteristiche deve avere il researchpreneur? Ne abbiamo parlato con Flavio Farroni, ricercatore e imprenditore, che “estrae” le caratteristiche di questa figura dall’esperienza di MegaRide. Un modello che funziona e che può essere replicato

Pubblicato il 21 Feb 2023

Flavio Farroni, CEO e co-founder di MegaRide al lavoro in pista

Dovremmo avere molte MegaRide, spin-off universitario diventato scaleup entrata nell’alta società dell’industria automotive, in un Paese come l’Italia con una produttività scientifica eccellente rispetto alla scarsità di finanziamenti e una qualità della ricerca di livello internazionale: riuscire a trasformare questo patrimonio di conoscenze e competenze in progetti di impresa, infatti, potrebbe sviluppare un rilevante valore economico. Come farlo è l’obiettivo dei numerosi uffici universitari che si occupano di trasferimento tecnologico. Chi riesce a farlo è il researchpreneur, il ricercatore-imprenditore, una figura di cui si comincia a parlare a proposito di imprenditorialià e innovazione.

Il reserchpreneur e il metodo MegaRide

Quali caratteristiche deve avere il researchpreneur? Ne abbiamo parlato proprio con un ricercatore-imprenditore che ha dimostrato che si può fare: Flavio Farroni, ricercatore e imprenditore, fondatore e CEO di MegaRide, spin-off dell’università Federico II di Napoli fondata nel 2016, che con i suoi soci Francesco Timpone e Aleksandr Sakhnevych ha messo a punto un metodo che l’ha portata a crescere,  e a sviluppare una piccola holding di imprese innovative (la prima si chiama VESevo, altre stanno per venire alla luce). Ecco sintetizzatoa una lunga conversazione con Farroni in 5 regole per trasformare la ricerca in business.

Scoprirsi researchpreneur

Si nasce o si diventa researchpreneur? Penso lo si nasca. Poche attività sono tra l’altro più umane, innate, e difficilmente automatizzabili, del fare ricerca e del fare impresa.

Il potenziale researchpreneur si ritrova d’improvviso, nel proprio percorso, a sentirsi un ricercatore forse meno “puro” di altri, meno rigoroso, ma più emotivo. Ed un imprenditore meno implacabile d’altri, ma più “open-minded”, come solo la ricerca sa essere. Si sente un po’ nel posto sbagliato, ovunque si trovi.

Il disagio del non appartenere ad una categoria diventa consapevolezza, nella percezione dei propri tratti non di diversità ma di distintività, di poter generare valore in un modo nuovo, inesplorato, intrinsecamente innovativo.

Fare impresa è una continua partita a scacchi con il proprio interlocutore, il mercato, e fare ricerca è avere a propria disposizione sempre nuove ed inattese mosse, da giocare.

Flavio Farroni, CEO di MegaRide

MegaRide, capire quando e perché fare spin-off

Nel nostro percorso, quello di MegaRide ci è sempre sembrato un progetto “dovuto”. Sviluppavamo idee nate da domande del mercato, che si era già rivolto all’università per riceverne risultati di qualità elevata, ma percepivamo la chiara possibilità di andare verso un mercato ben più ampio con competenze, prodotti, soluzioni sviluppati per essere qualcosa di diverso dagli output della ricerca.

Nonostante gli iniziali “attriti di primo distacco”, inevitabili quando si propongono cambiamenti che sovvertono gli equilibri, lo schema è apparso immediatamente sostenibile: le imprese ottenevano gli output desiderati, con costi inferiori se paragonati a quelli di creazione di reparti R&D interni; l’università cresceva in competenze, confrontandosi (finalmente, secondo molti) con la risoluzione di problematiche applicative e trovando proattivamente fondi per sostenere ricerca sia applicata sia di base; la formazione degli studenti vedeva lo sviluppo di competenze con radici ben piantate nel sapere teorico, ma tali da renderli appetibili al mercato per la capacità di rispondere ad esigenze precise. Uno schema che si potrebbe definire WIN-WIN-WIN.

Ritengo che l’ecosistema-startup, per come lo abbiamo conosciuto e per come si è evoluto nell’ultimo decennio, viva fasi altalenanti, dovute spesso a trend e a mode irrazionali, comunque troppo legate a partite finanziarie giocate a piani troppo alti rispetto a quelli degli startupper.

In un contesto del genere, la forza delle aziende innovative nate nei contesti universitari, basate su una conoscenza profonda e strutturata, le rende statisticamente più robuste e resistenti delle imprese create fuori.

A livello di sistema, quindi, è in tale direzione che gli incentivi andrebbero probabilmente rivolti. Con il duplice vantaggio, finanziando la conoscenza, di rafforzare la ricerca di base, driver di sviluppo nazionale, e di sostenere imprese innovative a basso tasso di mortalità

⇒ Clicca qui per leggere la storia e i risultati di MegaRide

Mantenere vicine ricerca e impresa

Attestata la fattibilità dello schema basato sulla coesistenza tra un percorso di ricerca e la creazione d’impresa, la chiave di successo è tutta, come spesso accade, nell ’execution.

Infinite sono le modalità con cui è possibile metter su una compagine, distribuire ruoli operativi e manageriali, gestire gli spazi di lavoro dentro e fuori l’università, curare la crescita professionale e personale di un gruppo di lavoro che, nel nostro caso, ha rapidamente raggiunto le 40 unità.

La differenza tra chi ha un buon progetto scientifico, e si perde nel portarlo sul mercato, e chi ci riesce, è nella definizione di processi chiari, in una struttura ibrida e dinamica come quella di uno spin-off accademico, nel quale coesistono persone ed obiettivi estremamente eterogenei.

Far lavorare fianco a fianco accademici, soggetti alla continua spinta del “publish or perish”, ricercatori e dottorandi, che lavorano su obiettivi di ampio respiro e lungo periodo, e risorse stabilmente assunte dall’azienda, che crescono seguendo le logiche economiche e motivazionali dell’impresa, è una sfida quotidiana che può essere vinta solo con una totale dedizione emotiva verso i bisogni del team da parte dei founder e alla definizione di obiettivi e comparti differenziati, che sappiano però cooperare a strettissimo contatto in una struttura elastica.

Se opportunamente costruita, tale struttura comporta benefici sistemici su più livelli. Gli accademici potenziano il loro impatto da attrattori di progettualità scientifiche, grazie alla spinta offerta dalle funzioni dello spin-off votate alla comunicazione. I giovani ricercatori fruiscono di uno strumento che snellisce il reclutamento di risorse, già formate attraverso percorsi di tirocinio e tesi, e la conduzione delle attività di ricerca, spesso penalizzata dalle lungaggini che la gestione della pubblica amministrazione comporta, in un ambito che necessiterebbe di ben altra reattività.

L’impresa innovativa vive in costante sinergia con l’istituto di ricerca, che ne rafforza l’allure reputazionale, e che soprattutto va a rappresentarne il comparto R&D, sovradimensionato oltre ogni più rosea aspettativa, in grado di inseguire numerosi trend di potenziale successo, abbattendo il rapporto costi/benefici.

Creare un ecosistema imprenditoriale

È nel contesto descritto, che è avvenuto l’ulteriore step di sistematizzazione, che rende il percorso di MegaRide replicabile. La storia del nostro spinoff e del suo successo, della sua capacità di dialogare con il top dell’automobilismo internazionale fin dai suoi primi passi, puntando sul valore della conoscenza e sulla formazione specializzata di risorse che vivessero di eccellenza professionale e senso di appartenenza, ha ritrovato sé stessa nella creazione del nostro secondo progetto.

Quattro anni dopo MegaRide, è nata VESevo. Anche nel suo nome, una dedica al territorio campano. Anche lei, gemmata dalla Federico II e cresciuta nell’incubatore di ateneo.

Se MegaRide è di fatto una software house in evoluzione verso le soluzioni onboard per la mobilità, VESevo sviluppa un dispositivo hardware, protetto da diversi brevetti internazionali, ideato originariamente per indicare ai team racing come far funzionare al meglio le diverse mescole dei loro pneumatici.

Si è partiti dall’automotive e dal network consolidato nella industry, perché è da gomma che sono principalmente costituiti gli pneumatici, ma ci si è ritrovati in breve tempo verso molto altro, perché in gomma sono prodotti i cavi elettrici, le guaine per l’edilizia, le suole delle scarpe, le piste di atletica e le palline da tennis. Tutti prodotti che necessitano di un rigido e continuo controllo qualità, che VESevo può effettuare in real-time, rapidamente ed in modo estremamente efficace ed economico. L’azienda è così passata in breve tempo ad una fase di crescita esponenziale.

Senza l’esperienza di MegaRide, senza la profonda conoscenza del mercato di ingresso, senza l’attenzione che il brand ha offerto ai founder, senza la capacità maturata nel veicolare le competenze scientifiche verso risposte rapide e dirette per gli interlocutori del mercato, VESevo sarebbe probabilmente molto più indietro di dove è oggi, o forse non sarebbe mai nata.

MegaRide è diventata una piccola holding del trasferimento tecnologico, con partecipazioni in VESevo (e presto in altre nuove startup che sta “accelerando”). Le risorse delle due aziende lavorano insieme, ed insieme ai ricercatori del nostro gruppo di ricerca. Il marketing, la logistica e l’amministrazione sono condivisi. I processi di conversione degli avanzamenti scientifici in sviluppo prodotto, le modalità di monitoraggio delle attività del personale e la vision basata sulla crescita continua delle risorse e la loro completa responsabilizzazione nell’autogestire il proprio tempo e il proprio life/work balance, fanno capo ad una medesima cultura aziendale, sviluppatasi organicamente nel percorso di MegaRide.

Se il medesimo team di ricerca mette in piedi in breve tempo due differenti progetti di trasferimento tecnologico, entrambi con immediato impatto sul mercato, seguendo un medesimo approccio, replicabile nel proprio ed in ulteriori contesti seguendo uno schema strutturato, ha forse senso parlare dello sviluppo di un metodo.

Imparare a leggere il mercato e progettare la crescita

Tornando al primo punto, chi è quindi il researchpreneur, e come l’attitudine di queste figure alla creazione di valore può essere sistematizzata in uno schema replicabile?

L’università, nell’ultimo decennio, ha sdoganato e probabilmente liberato dal loro stigma di ricercatori impuri, le figure dei manager della ricerca, attenti allo sviluppo di un network internazionale ed alle necessità del mercato, da soddisfare grazie al matching con le competenze tecniche provenienti dalle università e dai loro laboratori.

Se è nell’open innovation la chiave per la crescita del paese, e dei relativi comparti industriali e di ricerca, è di essa che gli esperti di technology transfer sono custodi. Valorizzare le capacità di chi sa dialogare con i due mondi, interpretando i bisogni del futuro in arrivo, e declinando i contenuti dell’ampio catalogo di idee che l’accademia produce, in un’ottica orientata al fatturato, è forse il passaggio ancora non completato nello sviluppo della filiera università-aziende.

Adoperando nuovamente il percorso di MegaRide da case-study, è dall’osservatorio privilegiato sui trend tecnologici offerto dal comparto della ricerca che sovraintende ai processi di innovazione dell’azienda, che sono nate le percezioni sui bisogni a cui il mercato va incontro.

Nata come software-house dedita allo sviluppo di modelli digitali di pneumatico per il motorsport, si è inizialmente evoluta verso le soluzioni per il testing, l’analisi e la riproduzione del comportamento dei veicoli in contatto con la strada. Oggi, MegaRide, che da un punto di vista societario è diventata micro-holding, da un punto di vista tecnologico si prepara a riversare la propria conoscenza a bordo dei veicoli che verranno, sempre più interconnessi ed autonomi, ed in grado di gestire algoritmi complessi in centralina.

La capacità di interpretare questo bisogno in anticipo, di predisporre prodotti e processi a vantaggio di esso, continuando parallelamente a tenere uno sguardo costantemente rivolto ad un orizzonte mutevole, è la forza delle aziende trainate dalla ricerca.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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