Il corporate venture capital non deve perseguire il ritorno finanziario come scopo principale: a dirlo è Avram Miller, storico cofondatore di Intel Capital e oggi residente in Italia, dove supporta anche l’Istituto Italiano di Tecnologia sui temi di trasferimento tecnologico. Miller non usa mezzi termini: un CVC che si concentra sui ritorni finanziari e che riporta al chief financial officer è “un errore di impostazione”.
Il compito di un veicolo di corporate venture non è battere i fondi di venture capital sul terreno dell’IRR, ma funzionare come un grande sensore strategico sul futuro del business, capace di riportare insight alle funzioni che disegnano la rotta dell’azienda.
Indice degli argomenti
Cos’è successo a Intel Capital
Intel Capital è uno dei CVC più longevi, ma il suo legame con Intel è stato messo in discussione all’inizio di quest’anno, quando il gruppo ha annunciato l’intenzione di scorporare la divisione investimenti dopo aver registrato una perdita netta di 18,8 miliardi di dollari nel 2024.
Il nuovo CEO, Lip-Bu Tan, nominato a marzo 2025, ha però rapidamente ribaltato quella decisione e Intel Capital è rimasta all’interno della corporate.
Parallelamente, nel 2025 Intel ha ottenuto un’iniezione di capitale azionario da 8,9 miliardi di dollari da parte del governo statunitense, a fronte della centralità strategica riconosciuta all’azienda nella filiera dei semiconduttori, e ha avviato una collaborazione con Nvidia su prodotti congiunti per data center e PC, a conferma di una fase di profonda ristrutturazione del modello industriale e finanziario.
Cosa dice Avram Miller
In una recente intervista raccolta dal sito specializzato Global Corporate Venturing, Miller ha ricordato come, alla nascita di Intel Capital alla fine degli anni ’80, il budget iniziale di 50 milioni di dollari fosse giustificato non dalla promessa di moltiplicare il capitale, ma dall’obiettivo di capire con largo anticipo dove stava andando l’innovazione digitale, accelerare le linee di prodotto di Intel e, solo in terza battuta, “guadagnare abbastanza da tenere tranquilli i contabili di gruppo”.
In realtà, quei 50 milioni si sono trasformati in un portafoglio da circa 9 miliardi di dollari quando Miller ha lasciato Intel, alla fine degli anni ’90, dimostrando che un’impostazione profondamente strategica non è affatto incompatibile con performance finanziarie di tutto rispetto.
Qual era il vantaggio di Intel Capital
Il “vantaggio competitivo” di Intel Capital, racconta, non stava tanto nella sofisticazione delle strutture di deal o negli artifici finanziari, quanto nella capacità di leggere in anticipo le traiettorie tecnologiche – dal networking alla banda larga residenziale – e nel peso reputazionale del brand Intel: l’ingresso del colosso nel capitale di una startup diventava un segnale potente per il mercato, capace di innescare un effetto traino su altri investitori e clienti.
In questo senso, il CVC funzionava come una leva di posizionamento strategico più che come una pura macchina di rendimento. Il vero rischio, secondo Miller, nasce quando l’organizzazione si dimentica questa origine e misura il successo del veicolo esclusivamente in termini di multipli e uscite, replicando logiche da fondo indipendente senza però avere la stessa libertà di manovra né la stessa tolleranza al rischio.
E mentre gli occhi del mercato restano puntati sulla capacità del gruppo di tornare a crescere, il giudizio di Miller sul posizionamento del CVC è netto: un veicolo come Intel Capital non ha senso se trattato come una semplice linea di business finanziaria. Ha senso se viene messo al servizio della strategia industriale complessiva, anche a costo di ridurne la dimensione e concentrare le risorse sui dossier davvero critici per la competitività futura.
Il CVC in Italia: quali insegnamenti ricavare dalla vicenda Intel
Queste considerazioni parlano molto da vicino anche alle grandi aziende italiane ed europee che negli ultimi anni hanno lanciato veicoli di corporate venture capital, spesso spinti dall’urgenza di “fare open innovation” più che da un disegno di lungo periodo. Non è raro vedere fondi CVC collocati sotto la CFO, con KPI centrati su exit e ritorni finanziari, mentre le funzioni di innovazione, strategia o R&D restano spettatrici. È un’impostazione che rischia di produrre portafogli formalmente di successo, ma solo debolmente integrati nel percorso industriale dell’azienda. Il messaggio che arriva dall’esperienza di Intel Capital – e dal racconto di Miller riportato da Global Corporate Venturing – è che la vera domanda non dovrebbe essere “quanto rende il CVC?”, bensì “quanto sta cambiando il modo in cui l’azienda vede il proprio futuro?”. Per un’economia come quella italiana, caratterizzata da gruppi industriali con forti radici manifatturiere e da ecosistemi di startup in crescita ma ancora fragili, rende più senso pensare al corporate venture come a una piattaforma per sperimentare nuovi modelli di business, esplorare tecnologie emergenti e costruire partnership strategiche, piuttosto che come a un semplice strumento per “fare multipli”.






