INNOVATION DETECTIVE

Non basta una bella soluzione per creare un mercato: il caso di un’azienda di tessuti e una startup

Un’azienda vuole vendere gli stessi tessuti destinati alla filiera mondiale del fashion ai piccoli consumatori on demand, con una web app nata durante un hackathon. Ma non funziona. La soluzione? Una startup interna per i piccoli imprenditori della moda che finisce per cambiare il rapporto anche con i grandi clienti

Pubblicato il 26 Ott 2022

Photo by Henrik Hjortshøj on Unsplash

Uno pensa che lavorare per l’industria del fashion sia tutto un corpo a corpo con designer e creativi. La qual cosa farebbe languire la maggior parte delle persone, ma non me, anzi. Perciò, quando con il mio secondo ci siamo affacciati a questo caso, sembravamo due turisti in un aereoporto internazionale, diretti agli antipodi. L’agente Rossetti aveva il sorriso stampato in faccia e una corona di fiori al collo, e io mi trascinavo intabarrata e triste come chi si prepara ad affrontare l’immensa ed inesorabile sfuggevolezza di una pianura ghiacciata.

Invece ecco che il primo colpo di scena arriva subito a ribaltare la situazione: il caso non riguarda i 6 brand di prèt a porter della famosa azienda di moda, bensì la sua divisione tessuti. Un grande business B2B, white label, a servizio dei principali brand di moda internazionale, come per esempio Zara ed H&M. Una distesa di tessuti stampati a perdita d’occhio, per realizzare le collezioni più vendute sul pianeta.

Mi sono definitivamente scrollata la tristezza di dosso quando ci hanno accompagnati a visitare gli impianti produttivi, e ho sentito il concerto dei mille rulli coprire le spiegazioni che la guida ci forniva sulla differenza tra stampa offset e stampa digitale. La stampa offset agisce con un meccanismo indiretto (cioè attraverso proprio un complesso sistema di rulli che massaggiano i tessuti), offre prestazioni altissime, permette di decorare anche superfici rugose… ma, c’è un grande ma: si sostiene solo coi grandi volumi. I costi di set-up del processo di stampa di un ‘pattern’, cioè di un modello di decorazione, sono elevatissimi e non si può cambiare fantasia ogni due per tre. Lo fai una volta, e poi giri i rulli per più chilometri possibile. D’altra parte se hai come clienti Zara e H&M, è proprio quello che serve. Ero così incantata da tutto questo rotolare ordinato e lineare che mi stavo quasi dimenticando il motivo per cui fossi lì, cioè il caso, il mistero da sbrogliare. Un caso – così me lo avevano presentato – di Venture Building.

L’agente Rossetti non parlava l’idioletto dell’innovazione (di cui tutti peraltro faremmo volentieri a meno) e ignorava cosa fosse il Venture Building, così mi ha chiesto di sbrogliare, per prima cosa, questa faccenda definitoria. “Si parla di Corporate Venture Building è quando un’azienda si organizza per trasformare le idee di innovazione in altre aziende…” dico io. “…e quindi fa una sorta di startup dentro l’azienda! Come in questo caso!” continua lei. “Non proprio. Si parla di Venture Building quando questa cosa si ripete in modo sistematico nel tempo… comunque non siamo qui per mettere il bollino di Venture Building a nessuno, facciamoci piuttosto raccontare la storia del perchè sono qui!”

La storia cominciava così: c’era una volta un hackathon, voluto dall’azienda di moda. Il team che lo vinse era composto da due dipendenti ed uno sviluppatore conosciuto sul posto: avevano avuto un’idea semplice e rivoluzionaria. Volevano vendere gli stessi famosi tessuti destinati alla filiera mondiale del fashion, in modo diverso: on demand, ai piccoli consumatori. On line naturalmente, attraverso una web app prototipata proprio durante l’hackathon. Ne vuoi un metro, al posto di 10 chilometri? Nessun problema: chiedimelo online e te lo faccio avere a casa in un paio di giorni. Qualità garantita. In questo modo l’azienda avrebbe valorizzato il suo asset principale – il design dei tessuti – in un mercato completamente nuovo. Ci sta, penso io, e deve averlo pensato anche la giuria dell’Hackathon.

“Il problema naturalmente è…” dice il responsabile dell’innovazione, “adesso che abbiamo smaltito la sbornia del premio… chi è che di preciso dovrebbe volere questo famoso metro di tessuto? A chi lo vendiamo? Perchè? A quanto? Abbiamo fatto il sito in 12 ore, ma temo che per finire la startup non siano bastate.”

Timore più che fondato. La domanda ancora più interessante, per di più, era un’altra, e stava proprio dove nessuno se l’aspettava. Ma arriviamoci per gradi: c’erano altre ipotesi da invalidare che avevano la precedenza, e altre lezioni da apprendere per il piccolo agguerritissimo team. La prima, molto base: senza colpevole e movente il caso non sta in piedi. Cioè: non basta avere una soluzione bella ed esclusiva per creare un mercato.

All’inizio si pensava al segmento degli hobbisti, ma dopo un po’ di sano lavoro investigativo abbiamo scoperto che per cucirsi una borsa, un grembiule, un cuscino, il cappottino per la nipotina, le soluzioni abbondano anche off-line e sono soprattutto a buon prezzo. L’hobbista non aveva problema che questa particolare soluzione risolvesse. Le metriche lo dimostravano chiaramente: lunghe sessioni di ricerca, poche conversioni, piccole quantità, tanta diversità di richieste. Cioè: dammi 50 cm di questo, 40 cm di quell’altro, 30 cm di quell’altro ancora. Giusto per provare. E qui stava il problema: non per il cliente, ma per l’azienda!

Questo stillicidio di richieste stava mandando in crisi la produzione, e questa volta i rulli non c’entravano. Per produrre piccoli volumi, il team aveva deciso di appoggiarsi al reparto campionatura, che usava una tecnologia diversa, la stampa in digitale. Ma il reparto campionatura non era abituato a funzionare al ritmo di un vero e proprio reparto produttivo: serviva il mercato ‘interno’ dei designer, non c’erano tutti i giorni ordini da evadere per la data x e la quantità y. Perciò i ritardi si accumulavano, i rapporti coi pochi clienti si incrinavano, e soprattutto diventava progressivamente chiaro che l’aspetto più rischioso di tutto il nuovo modello di business era quello che tutti davano per scontato, ovvero: “Che ci vuole a produrre un metro, se sei abituato a fare i chilometri?”

Ma non è finita qui. Il secondo fatto eclatante era che i pochi clienti che non si erano lasciati scoraggiare da queste inefficienze, chiedevano qualcosa di scioccante: chiedevano di usare i propri ‘design’, cioè le proprie fantasie da applicare ai tessuti. Volevano la possibilità di fare l’upload di un disegno, e stamparlo sulla stoffa fornita dalla grande azienda.

In occasione di un Innovation Board, il responsabile marketing è insorto: “Ecco! Non è rimasto più nulla dell’idea originale, se non possiamo nemmeno contare sull’attrattività dei nostri design, che cosa siamo? Un servizio di stampa on-demand?”

Quando vacilla qualsiasi cosa, anche quello che non pensavi nemmeno fosse in bilico, è il momento in cui tutto sembra perduto. Ma è anche un momento di grande verità, in cui finalmente è possibile costruire su qualcosa di solido, come i fatti. Ed ecco che qualche fatto interessante è cominciato ad arrivare.

Fatto numero 1: i clienti che chiedevano insistentemente di uploadare i propri design, chiedevano anche metrature maggiori, con maggiore regolarità e senza particolari stress sui tempi di consegna.

Fatto numero 2: gli stessi clienti avevano un’occupazione in comune. Erano designer di moda, e chiedevano tessuti di qualità ‘industriale’ per costruire le proprie ‘capsules’. Quindi era la bassa qualità del tessuto, e della stampa, il loro problema, il vero colpevole. E questa soluzione lo risolveva bene. Il mercato della nuova venture d’altra parte era sempre nel settore della moda, era sempre un B2B, ma con volumi così piccoli da passare completamente inosservati per la rete di vendita dell’azienda ‘madre’, che aveva il compito di sfamare i rulli.

Perciò è successo questo: la startup è diventata un servizio di stampa on-demand per piccoli imprenditori della moda, appoggiata esclusivamente sul canale web. Il problema di produzione è stato risolto separando il processo di campionatura da quello di stampa digitale per il mercato, che è stato appaltato completamente all’esterno.

Ma il bello deve ancora venire: l’azienda si è resa conto che la diversa tecnologia di stampa abilitava una maggiore elasticità anche nei confronti dei grandi clienti. Permetteva proprio di ribaltare il rapporto con il proprio mercato. Non più fondato su cosa i grandi clienti potessero fare per l’azienda (cioè sfamare i famelici rulli con ordini ciclopici), ma su cosa l’azienda potesse fare per i clienti, cioè: garantire una fornitura affidabile di tessuti di qualità, con design originali. Da grande industria, a grande piattaforma, insomma. E dire che sembrava tutto perduto. Più che Corporate Venture Building, un bell’esempio di Corporate Re-Building!

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Irene Cassarino
Irene Cassarino

Irene Cassarino, ingegnera di formazione, PhD in Gestione dell’Innovazione, è CEO e fondatrice di The Doers, ora parte del gruppo Digital Magics. Ha dedicato tutta la sua vita professionale alla ricerca di nuovi mercati, lavorando con più di 200 startup e decine di grandi aziende italiane e internazionali.

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