La mia giornata di lavoro è ormai un dialogo costante con l’AI generativa. Non mi sorprende quasi più se, nel giro di 48 ore, riesco a portare a termine attività che fino a pochi mesi fa avrebbero richiesto settimane di lavoro.
Cose come collaborare con ChatGPT per creare un sondaggio e pubblicarlo su LinkedIn, caricare dieci documenti su Google NotebookLM per ottenere una sintesi e generare da zero un podcast che ascolterò in macchina, senza registrare un solo minuto di audio.
Nelle stesse ore, mi ritrovo a sviluppare un artifact per Claude, ossia una piccola applicazione basata su agenti AI, senza scrivere una sola riga di codice, e a prototipare su Lovable.dev un’app completa, con registrazione utenti e integrazione delle API di OpenAI e Anthropic, per dare finalmente forma a un’idea che avevo in testa da tempo.
Posso certamente definirmi un power user della generative AI. Nell’ultimo anno, il mio livello di produttività è cresciuto esponenzialmente: la tecnologia mi mette a disposizione nuove opportunità per sperimentare e creare senza dover dipendere da altri.
Sono solo io? O ormai l’AI è diventata una compagna di lavoro per tutti? Per capirlo, e per uscire dalla mia bolla di utente super entusiasta, ho deciso di ascoltare altre voci. Nelle ultime settimane ho intervistato una ventina tra manager e professionisti che operano in organizzazioni molto diverse: grandi aziende, realtà innovative, servizi, enti pubblici, associazioni di categoria e istituzioni accademiche.
Nonostante il campione sia piccolo e volutamente eterogeneo, il quadro che emerge è sorprendentemente nitido. Alcuni pattern si ripetono, trasversali a settori, ruoli e dimensioni; altre dinamiche, più sottili o inattese, aiutano a intuire come potrà evolvere, nei prossimi mesi, la relazione tra persone, IA e organizzazione. Ecco cosa è emerso da queste conversazioni.
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AI generativa in azienda: l’adozione “dal basso” è la normalità
Tutti i miei interlocutori confermano lo stesso schema: la spinta verso l’AI generativa in azienda nasce dal basso: sono i singoli professionisti più curiosi, spesso con un background digitale o semplicemente più “smanettoni”, a introdurre nella quotidianità strumenti come ChatGPT, Gemini o Perplexity, senza attendere linee guida ufficiali o permessi formali.
L’IA viene spesso descritta come un “collega junior” o un “assistente personale” sempre disponibile a svolgere compiti ripetitivi: ottimizzare comunicazioni e briefing, creare immagini e contenuti per i social, estrapolare informazioni da documenti complessi. Per molti, l’AI generativa in azienda è ormai diventata fondamentale per gestire carichi di lavoro elevati e mantenere la resilienza operativa.
Un aspetto interessante è l’opportunità di ridurre la dipendenza dalle agenzie esterne per le attività di routine: l’introduzione dell’AI generativa in azienda permette di gestire direttamente, in modo più agile e veloce, molte operazioni che prima venivano esternalizzate, valorizzando così il know-how interno e garantendo maggiore controllo sui processi.
C’è anche una certa propensione a investire personalmente su questi strumenti, acquistando di tasca propria versioni a pagamento di strumenti come ChatGPT per creare una relazione continuativa e personalizzata con l’assistente virtuale. Alcuni considerano l’IA un un “compagno” capace di ricordare preferenze, contesto e interazioni passate, facilitando il lavoro quotidiano e offrendo anche supporto emotivo.
Lo strumento di gran lunga più utilizzato rimane ChatGPT. In alcune aziende sono stati attivati ufficialmente anche Microsoft Copilot o Google Gemini, ma la preferenza, soprattutto tra i professionisti più esperti, continua a ricadere sulla soluzione di OpenAI. Questo crea una dinamica interessante: sembra che gli strumenti integrati nelle suite di produttività aziendali vengano percepiti come meno versatili o “meno intelligenti” rispetto ai chatbot generalisti, finendo talvolta per essere ignorati o utilizzati solo in modo superficiale. Si rischia un “effetto Clippy”, il celebre e un po’ inquietante assistente a forma di graffetta animata che Microsoft introdusse in Office 97, percepito come una presenza più invadente che utile.
Compliance: un tema ancora poco presidiato
Il tema della compliance, specie in prospettiva dell’AI Act europeo, è ancora largamente assente. Solo in pochissime realtà esistono policy chiare, percorsi di formazione strutturati o veri processi di change management. Non sorprende, quindi, che la stragrande maggioranza delle persone con cui ho parlato non abbia mai ricevuto una formazione né sull’uso degli strumenti né sul loro impiego responsabile.
Da quanto ho potuto osservare, sembra che la maggior parte delle organizzazioni si affidi ancora al buon senso individuale o a raccomandazioni generiche, soprattutto nelle organizzazioni che operano in settori poco regolamentati. Le preoccupazioni più sentite riguardano la gestione dei dati sensibili, la privacy, il rischio di bias nei modelli (ad esempio nei processi HR) e l’utilizzo di piattaforme che potrebbero sfruttare i dati in modi impropri o imprevedibili.
Rimane forte l’incertezza su quali saranno, nei prossimi mesi, gli obblighi concreti da rispettare con l’arrivo dell’AI Act: chi dovrà essere formato? quali saranno le responsabilità a valle dell’adozione? come cambieranno i processi di audit e controllo interno? Le principali preoccupazioni riguardano la privacy dei dati, la riservatezza e la proprietà intellettuale, soprattutto nell’uso di strumenti IA esterni gratuiti che possono utilizzare i dati aziendali per l’addestramento dei modelli.
L’efficienza vince, ma il ROI resta sfuggente
Se chiedete ai manager quali sono i principali vantaggi dell’ AI generativa in azienda, la risposta è quasi unanime: l’IA consente di risparmiare tempo e aumentare l’efficienza, soprattutto nelle attività ripetitive o a basso valore aggiunto. Tuttavia, nonostante questa diffusa percezione di maggiore produttività, la misurazione rigorosa del ritorno sull’investimento rimane elusiva. Nessuno degli intervistati è stato in grado di fornire KPI precisi o casi di successo supportati da dati solidi. L’impatto dell’AI viene valutato soprattutto in modo qualitativo o intuitivo, più che attraverso metriche oggettive.
Alcuni segnalano anche una crescente “fatica da prompt”: a volte il tempo risparmiato nella produzione viene compensato da quello necessario alla revisione e al controllo, soprattutto quando la qualità del contenuto o la sensibilità regolatoria sono rilevanti. In generale, emerge una difficoltà a quantificare il reale ritorno dell’AI, con diversi manager che sottolineano come anche i fornitori facciano fatica a dimostrare risultati tangibili. Il miglioramento percepito è spesso incrementale, raramente realmente disruptive.
Resistenza culturale e ansia generazionale
Le conversazioni mettono in luce un divario generazionale e culturale nell’approccio all’IA. Nelle strutture più tradizionali e tra i manager senior prevalgono scetticismo e preoccupazione, soprattutto per il rischio di dequalificazione e perdita di competenze umane nei processi aziendali. Un timore diffuso riguarda la possibilità che l’IA generativa cannibalizzi i ruoli junior, automatizzando fin da subito molte attività di base e riducendo le opportunità di crescita per chi entra oggi in azienda.
Questa resistenza, alimentata anche da stereotipi e incertezze sull’impatto occupazionale, si traduce in una richiesta sempre più esplicita di formazione pratica, anche a livello executive, per comprendere come l’IA stia trasformando carichi di lavoro, processi e struttura dei team.
Dalle testimonianze raccolte, emerge un messaggio chiaro: l’IA è un acceleratore potente, ma non può (e non deve) sostituire il giudizio umano. La qualità dei contenuti, la cura dei dettagli, il pensiero critico e la capacità di interpretare correttamente un brief restano – almeno per ora – prerogative insostituibili delle persone, soprattutto nei contesti a più alto valore aggiunto.
La vera sfida comincia ora
La mia impressione è che se continuassi con altre venti interviste, otterrei la stessa fotografia di una realtà in cui l’IA generativa è già parte integrante del quotidiano aziendale, anche se spesso in modo sommerso, non governato e frammentato. La sfida dei prossimi mesi è trasformare l’entusiasmo individuale in una governance consapevole, integrare l’IA nei processi chiave, imparare a misurare davvero l’impatto, e investire nella formazione di manager e team.
Si può partire da una mappatura, anche informale, per far emergere pratiche già in atto. In molti casi, l’adozione è più avanzata di quanto si creda: manca solo uno sguardo sistematico per riconoscerla e valorizzarla.
A partire da questa fotografia, è possibile costruire percorsi di formazione mirata e calata sul lavoro reale dei team. Allo stesso tempo, diventa utile creare spazi agili per condividere prompt, strumenti e soluzioni.
In questa fase, servono anche pochi principi chiari da condividere nell’organizzazione: cosa è incoraggiato, cosa va monitorato, quali strumenti usare come riferimento. Una cornice leggera, che include anche le necessarie proibizioni, ma che consenta alle persone di sperimentare con serenità.
In questo modo le organizzazioni possono passare da un’adozione spontanea e disordinata a un uso consapevole, capace di generare apprendimento, efficienza e innovazione.
Nota di trasparenza: questo articolo è stato sviluppato in collaborazione con ChatGPT. Il processo ha previsto una fase iniziale di brainstorming supportata dall’IA, seguita dalla stesura di più versioni del testo e da un lavoro di revisione finale svolto interamente dall’autore. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale ha accompagnato, ma non sostituito, le scelte creative e argomentative, che restano pienamente umane.






