Innovazione e fallimento, non è bello e serve solo se c’è apprendimento

In Europa, e soprattutto in Italia, c’è sempre stata una cultura avversa al rischio e contro il fallimento, che è un fattore critico di successo per chi fa innovazione. Ma deve essere interpretato correttamente, come occasione per sperimentare e imparare qualcosa da evitare

Pubblicato il 19 Dic 2019

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Innovazione e fallimento, un binomio inscindibile ma da valutare con attenzione. Se pensiamo che l’Enciclopedia Treccani, alla voce fallimento cita “Esito negativo, disastroso, grave insuccesso” oppure “riconoscere l’inutilità dei propri sforzi, l’impossibilità e incapacità di raggiungere gli scopi fissati, rinunciando definitivamente alla lotta, all’azione”, è semplice constatare perché sia a livello personale sia nelle aziende questo termine abbia sempre avuto accezione negativa, incentivando “immobilismo” e ostracismo verso il lancio di nuove iniziative perché ritenute troppo rischiose.

Oggi, però, viviamo in un’epoca di continue e veloci trasformazioni (tecnologiche, sociali, politiche, ambientali, ecc.) con profonde implicazioni sulle strategie di ogni organizzazione. Ed è in questo contesto, caratterizzato da crescente incertezza, che le aziende competono tra di loro. Molte di esse hanno riconosciuto nell’ampio tema “innovazione” una possibile risposta a questi cambiamenti, avvicinandosi ad alcuni aspetti culturali e approcci tipici del mondo delle startup.

Innovazione e fallimento, perché è rilevante 

Fare innovazione implica esplorare terreni incerti e sconosciuti, operare in un contesto con informazioni parziali e contraddittorie e quindi significa lavorare per ipotesi, immaginandosi come può essere il futuro. Prendere decisioni e agire in queste condizioni richiede attitudine e propensione al rischio per poter investire risorse senza avere sufficiente conoscenza sul risultato finale.

È quindi evidente che innovazione, fallimento e rischio abbiano uno stretto legame. Molti sono gli esempi di aziende di successo che hanno affrontato casi di insuccesso, anche di grosse dimensioni. Nemmeno Apple, Google e Amazon ne sono immuni. Ricordate iTunes Ping, Google Glass e Fire Phone?

Non solo, ma anche molte storie individuali di persone ora di successo hanno in comune uno o più fallimenti prima del trionfo: da J.K Rowling (la “madre” della saga Harry Potter), ad Arianna Huffington, a James Dyson fino all’ultra citato Edison, tutti hanno raggiunto il successo dopo aver provato direttamente il fallimento, anche più volte.

In tutti questi casi il fattore critico di successo risiede nella loro capacità e predisposizione a sperimentare. Bezos stesso ha dichiarato che è possibile giungere alla vera innovazione solo attraverso la sperimentazione, aggiungendo che le più importanti innovazioni sono state il frutto di approcci trial & error che hanno attraversato numerosi fallimenti. Infatti, è solo attraverso la continua sperimentazione che è possibile acquisire conoscenza e capire se l’idea funziona o meno, se le ipotesi che la caratterizzano vengono validate oppure no. Il fondatore di Amazon sostiene così apertamente l’importanza del fallimento che nell’ultima lettera agli azionisti dichiara la necessità di far crescere anche la magnitudine dei fallimenti al crescere di un’azienda, altrimenti l’organizzazione non sarà più in grado di creare innovazioni che possono modificare in maniera sostanziale le sue performance.

Il punto cruciale che contraddistingue le più grandi aziende innovative risiede nella loro capacità – e velocità – di apprendere dalle sperimentazioni e dai test. Infatti, quello che più conta nel mondo dell’innovazione è capire il prima possibile che un’idea non funzionerà. Così sarà possibile procedere a sviluppare e a concentrarsi su altro, risparmiando risorse.

Innovazione e fallimento: maneggiare con cura

Fail fast. Fail cheaply. Fail often.

È uno dei mantra dell’approccio Lean Startup più ripetuto e diffuso tra chi si occupa di innovazione e che possiamo ritrovare in tantissime slide di esperti, consulenti e docenti, in poster appesi alle pareti di vari incubatori e acceleratori di startup, Innovation Lab, Innovation Garage e Innovation Factory di aziende di tutti i settori. Si tratta di un concetto citato così spesso in eventi, conferenze e anche nelle aule di università e business school, al punto di averlo svuotato il significato, aprendo anche alle più disparate interpretazioni (e, di riflesso, applicazioni nei processi di innovazione). Da anni ormai vanno in scena i FailCon, dei veri e propri festival del fallimento, conferenze in cui startupper e professionisti affermati salgono su un palco e raccontano i loro insuccessi.

Da un lato queste iniziative e la sempre maggior adozione di approcci trial & error, learning by doing e di veri e propri movimenti come la Lean Startup hanno permesso di introdurre il termine “fallimento” nel vocabolario aziendale. Tuttavia, nel pieno dell’hype, hanno facilitato la “distorsione” del tema e creato confusione su cosa effettivamente sia e rappresenti il fallimento.

Il fallimento serve solo se c’è apprendimento

La realtà è che, comunque, fallire è una carenza di rendimento, è l’opposto del successo. Il fallimento non è mai piacevole né auspicabile e non è l’obiettivo ultimo di una sperimentazione, perché comporta la vanificazione dei propri sforzi e la delusione delle aspettative.

Per questo crediamo che un fallimento dovrebbe essere celebrato solo se conduce ad un apprendimento.

È doveroso distinguere tra “good failure”, ovvero quando si sta provando qualcosa di nuovo e non è possibile sapere in anticipo cosa lo può rendere di successo, fallendo quindi nel tentativo di trovare la strada giusta, e “bad failure”, quando si fa qualcosa di sbagliato anche se è già possibile conoscere la modalità corretta di esecuzione.

Come ha scritto di recente Gary Pisano, docente di Harvard, una sana cultura dell’innovazione è contraddistinta da “tolleranza per il fallimento, ma nessuna tolleranza per l’incompetenza”.

L’avversione al cambiamento e al rischio

Anyone who isn’t embarrassed by who they were last year probably isn’t learning enough.” — Alain de Botton.

Aver favorito la diffusione e l’accettazione del concetto di fallimento è stato sicuramente un effetto positivo dell’adozione di approcci più snelli all’innovazione, che spesso hanno permesso la creazione di “ambienti più permissivi e sicuri” che rendano il contesto più favorevole alla creatività e all’innovazione. Ma per molte organizzazioni c’è ancora tanta strada da fare, perché nonostante alcune iniziative estemporanee, nel complesso restano avverse al cambiamento e al rischio. Termini come “rischio” e “fallimento” non sono visti di buon grado, anzi chi si trova ad affrontare il fallimento viene penalizzato, con l’unico effetto di inibire tutte quei comportamenti necessari per innovare.

Questa situazione ha però un side effect ancora sottovalutato: ambienti con una cultura fortemente avversa al fallimento e alla sperimentazione, focalizzati al mantenimento dello status-quo, sono ad elevato rischio disruption. Casi di aziende grandi leader di mercato che non hanno saputo innovarsi e affrontare la rivoluzione digitale sono oggi tristemente celebri e questo trend non accenna a fermarsi, come testimonia il fallimento della storica agenzia di viaggi inglese Thomas Cook, che ha dichiarato il fallimento nell’autunno 2019, dopo 178 anni di attività e con oltre 21.000 dipendenti.

Tuttavia, accettare il fallimento è solo un primo, seppur necessario, passo. Infatti, sarebbe forse più corretto esaltare l’importanza dell’apprendimento piuttosto che del solo fallimento, o per dirla in gergo Lean Startup sarebbe più opportuno incollare alle pareti degli uffici di chi si occupa di innovazione poster con il concetto di “Validated Learning” al posto dell’inflazionato “Fail Fast, Fail Often”. Un fallimento senza apprendimento, infatti, è il più grave errore che si possa compiere, e che spesso molte aziende non si possono permettere.

Sembra un paradosso, o una situazione “schizofrenica”, ma è necessario che i leader delle aziende sappiano gestire con molta cautela – e senza sottovalutare – il tema del fallimento per poter diffondere e incentivare un vero comportamento imprenditoriale.

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Andrea Cavallaro
Andrea Cavallaro

PhD in Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano, attualmente Associate Partner di Partners4Innovation. Supporta le imprese a cogliere le opportunità dell’Innovazione Digitale in percorsi di vera e propria Trasformazione Digitale, attraverso la progettazione di nuovi modelli organizzativi, basati sui principi di innovazione, agilità e imprenditorialità.

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