Brand community, il nuovo marketing funziona se viene ridisegnato il modello di business

Network e community funzionano solo se si è guidati dalla “customer obsession”, dalla centralità delle relazioni umane ed empatiche lungo tutti i punti di contatto, con un uso intelligente delle tecnologia a potenziamento dell’intelligenza umana. Ecco perché le aziende ancora incontrano molte difficoltà

Pubblicato il 19 Feb 2019

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#Community Manager” è il titolo del libro scritto da Osvaldo Danzi e Giovanni Re per ridare senso e slancio a parole inflazionate come Community, Network, Persone. Il digitale le sta enfatizzando e sono sempre più centrali nella gestione dei business più innovativi. Il volume ospita un intervento di Andrea Boaretto, di cui pubblichiamo qui la versione estesa.

Nel 2019 la parola “community” ormai non va più di moda e per gli esperti di marketing risuona come qualcosa dei primi anni 2000, nell’era antecedente allo sviluppo dei social network tipicamente applicato in marche fortemente orientate ad un concetto di esperienza legato ad emozione (es. Harley-Davidson, Ducati, Nutella) o di marche che con colpi di genio trasformarono Club di consumatori in community (es. Thun).

Ora è il social media marketing, con dinamiche di real time engagement, che risuona come un dato di fatto per aziende cool che hanno saputo raccogliere attorno a sé in ambienti social grandi audience (non per forza clienti) con una content strategy volta a reinterpretare con lo stile della marca i fatti del giorno o della settimana (si pensi ai ben noti casi di Ceres o dell’azienda funebre Taffo su Facebook).

Premessa una lettura semplicistica dei fenomeni di cui sopra, urge una riflessione per non cadere in effetti moda legati a trend del momento, spesso passeggeri e che non contribuiscono a creare equity di marca nel medio-lungo periodo.

I 4 elementi del nuovo paradigma di marketing

Innanzi tutto occorre inserire le brand community nel nuovo paradigma di marketing che ormai da anni ha sdoganato una serie di concetti chiave tra loro interrelati come:

1.     Dynamic Personas®

2.     Co-creazione

3.     Esperienza di marca

4.     Interazione multicanale, multimensionale e in real time.

In sintesi l’individuo mostra diverse maschere nella sua vita quotidiana (Dynamic Personas®), più o meno aperte all’interazione con le marche, che devono consideralo non più un target passivo ma un elemento attivo nella co-creazione non solo di prodotti, ma di esperienze di valore, uniche e memorabili in cui i valori della marca siano chiaramente evidenziati e manifestati in tutti i punti di contatto, con interazioni non più solo bidirezionali azienda-individuo ma anche orizzontali tra individui stessi, sotto l’ombrello della marca, con dinamiche sempre più istantanee e contestuali grazie all’utilizzo massivo di smartphone, che hanno cambiato i paradigmi di interazione in tutti gli ambiti.

Brand community, le difficoltà per le aziende

La brand community, quindi, vive in un paradigma in cui la marca mette a disposizione dei clienti frammenti di esperienza che ciascuno può co-creare e personalizzare in un sistema di interazioni in cui la presenza di altri individui può portare, per una quota parte di clienti, un aumento dell’esperienza di marca o proprio la reason why per cui la marca viene acquistata e consumata.

Seppur il paradigma continua ad essere valido, le difficoltà più grandi per le aziende che vogliano far leva su brand community sono due:

1. la mancanza di una vera esperienza di marca connotata e persistente con contenuti rilevanti per i clienti;

2. la difficoltà ad interpretare e fare proprio un “valore di legame” tra i clienti, legato ovviamente alla brand experience.

Oltre a tali difficoltà legati alla struttura del modello di business e del marketing dell’azienda si osservano altri due trend:

1. un trend sociale, amplificato ora dall’uso dei social network, ovvero in generale il minor ruolo aggregante di punti di riferimento una volta considerati stabili (di fatto attrattori sociali antecedenti alle community), nonché la ricerca di legami deboli se non estemporanei (si pensi alle recensioni in siti di eCommerce di qualunque categoria merceologica in cui la fiducia viene posta in esperienze di individui simili ma con cui non sussiste nessun legame se non quello in the moment nella scelta del bene o servizio);

2. un trend di business per cui concetti simili alla community si sono massificati e presenti in molteplici contesti merceologici come estensione della value proposition (si pensi ad esempio ai fitness tracker con app con servizi a valore aggiunto tra cui le sfide anche con sconosciuti che condividono la stessa passione per il fitness).

In tale contesto, quindi, le brand community hanno ancora spazio nelle strategie di marketing per un’azienda per creare veramente valore?

Dal mio punto di vista lo spazio c’è, se si tengono presente gli assunti del paradigma di cui sopra e alcune linee guida:

1. le brand community sono asset relazionali e non campagne tattiche di breve, e come tali vanno gestite in termini di risorse, budget e metriche;

2. le brand community non si creano a tavolino, ma vanno fatte emergere e potenziate: la co-creazione parte quasi sempre dal basso e compito della marca è di cogliere insight di valore di legame e potenziarle sotto l’ombrello della marca;

3. le brand community non sono un punto di contatto digitale (un sito, un app, una presenza social, etc.) ma un insieme di interazioni multicanale centrate sugli individuiche devono vivere in maniera specifica e connotata in tutti i punti di contatto a cominciare da quelli fisici che giocano un ruolo chiave di attivazione e celebrazione (es. eventi);

4. le brand community sono parte integrante di strategie (non solo del software) di CRM, che deve sempre più essere un customer data hub che contiene le interazioni con i clienti e prospect: l’attivismo di un cliente o di un prospect nella community è un dato forte di profilazione anche per meccanismi di advocacy, nonché grazie a sistemi di marketing automation e intelligenza artificiale si può far tesoro dei contenuti prodotti per metterli a disposizione di altri membri con affinità simili o nel momento del loro bisogno;

5. le brand community hanno bisogno di risorse dedicate con capacità di ascolto, dialogo e forte senso del business: può non servire un community manager se il suo compito è ottenere più like nei post o migliori call to action, ma può essere una competenza diffusa e condivisa tra più persone e in un modello ideale a tutta l’organizzazione a rete, che apre la sua community interna verso l’esterno potenziando la capacità dei collaboratori più smart che diventano veri ambasciatori della marca;

6. le brand community vanno misurate per il contributo attivo al valore della marca e dell’impresa e non solo al fatturato nel trimestre, per cui servono indicatori legati al Customer Lifetime Value nonché agli effetti amplificanti del valore di legame tra individui (advocacy, etc.).

In sintesi la vita ed il successo di una brand community è fortemente legata alla capacità dell’impresa di ridisegnare un modello di business guidato dalla “customer obsession”, dalla centralità delle relazioni umane ed empatiche lungo tutti i punti di contatto, con un uso intelligente delle tecnologia a potenziamento dell’intelligenza umana (cerebrale, digitale, emotiva), e in maniera più importante una forte vision e committment del vertice strategico, che deve essere capace di rendere chiaro e condiviso in tutte le unità organizzative il valore strategico, stante l’essenza di asset relazionale e non di campagna tattica.

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Andrea Boaretto
Andrea Boaretto

Founder & CEO di Personalive, è docente di Multichannel Marketing al MIP, Politecnico di Milano

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