L'INTERVISTA

Che cos’è la “post disruption” secondo Paul Nunes: l’innovazione che salva il vecchio

Siamo in una una nuova fase, dice Paul Nunes, teorico della “Big Bang Disruption”. Adesso serve un approccio bilanciato tra la parte “vecchia” del business, quella attuale e la futura. A questa costante “rotazione verso il nuovo” ha dedicato il libro “Pivot verso il futuro”. Ecco che cosa consiglia alle imprese

Pubblicato il 05 Feb 2020

Paul Nunes, global managing director per la Thought Leadership di Accenture Research

Dalla “disruptive innovation” alla “post disruption”: sono passati 25 anni da quando un professore di Harvard, Clayton Christensen, scomparso di recente, coniò il termine che coglieva in pieno il senso dell’innovazione in grado di travolgere e spazzare via interi business. Oggi Paul Nunes, top manager di Accenture Research, spiega nel suo nuovo libro “Pivot verso il futuro” (Egea), come è cambiato il percorso dell’innovazione nei vari settori industriali e soprattutto come deve cambiare l’approccio delle aziende. Non si deve più pensare che, se un business è vecchio, bisogna lasciarlo completamente perdere, o se è nuovo si può investire in tecnologia solo fino a un certo punto. L’approccio oggi è più complesso, fatto di maggiori sfaccettature e di un’innovazione in qualche modo costante, bilanciata, sempre in equilibrio tra l’”old, il “now” e il “new”.

Abbiamo incontrato Paul Nunes – autore, lo ricordiamo, di un altro testo base per gli innovatori, “Big Bang Disruption” – in occasione della presentazione in Italia del suo libro. Vediamo chi è, i principali contenuti del suo testo e cosa ci ha detto su queste tematiche.

Chi è Paul Nunes

Paul Nunes è un veterano di Accenture, dove lavora da 34 anni. Attualmente è global managing director per la Thought Leadership di Accenture Research. Il suo ruolo è guidare l’azienda nello sviluppo di insight innovativi in materia di tecnologia e cambiamento strategico del business. È co-autore di tre libri: “Big Bang Disruption. L’era dell’innovazione devastante” (con Larry Downes, 2014; tradotto in italiano da Egea con prefazione di Umberto Bertelé); “Jumping the S-Curve. How to Beat the Growth Cycle, Get on Top, and Stay There” (con Tim Breene, 2011); e “Mass Affluence. 7 New Rules of Marketing to Today’s Consumers” (con Brian Johnson, 2004).

“Pivot verso il futuro”: il libro sul wise pivot e la post disruption

La continua evoluzione dello scenario e l’emergere di tecnologie digitali richiedono un radicale cambio di approccio per le imprese, il management ed il sistema Paese: attori che, per sopravvivere, sono chiamati a realizzare quella che Accenture definisce “la rotazione verso il nuovo”. È questo il cuore di “Pivot verso il futuro”. Attraverso il racconto di casi di successo e fallimenti esemplari, il volume a cura di Omar Abbosh, Paul Nunes e Larry Downes di Accenture vuole fornire gli strumenti per aiutare le imprese a scoprire nuove fonti di valore “intrappolato” da liberare e reinventare simultaneamente i loro business storici, quelli odierni e quelli emergenti in modo equilibrato, sostenibile e duraturo. Ilo libro si basa su oltre 2 anni di ricerche condotte da Accenture su migliaia di aziende di trenta settori industriali, ma è anche influenzato dal lavoro dei clienti e soprattutto dall’esperienza stessa di Accenture. L’azienda, in continua evoluzione, ha sperimentato in prima persona il wise pivoting, affrontando ondate potenzialmente distruttive di cambiamento e reinventandosi costantemente. Alla presentazione in Italia era presente Fabio Benasso, CEO e presidente Accenture Italia.

Un momento della presentazione del libro di Paul Nunes

Paul Nunes: l’intervista

Dottor Nunes, Christensen aveva coniato l’espressione “disruptive innovation” nel 1995, lei ha scritto “Big Bang Disruption” nel 2014. Oggi, nel 2020, ci parla di “wise pivot” e di “post disruption”. Cosa è successo negli ultimi 25 anni?

All’inizio tutti pensavamo all’innovazione come spesa in ricerca e sviluppo, offerta di un prodotto migliore e applicazione di un costo maggiore perché era stato fatto un investimento. Questa era la strategia del “better product” formulata da Michael Porter, docente alla Harvard Business School e uno dei maggiori esperti mondiali di teoria della strategia manageriale. Nel 1980 Porter elaborò alcune strategie generiche che descrivono il modo in cui un’azienda persegue un vantaggio competitivo nell’ambito di un mercato prescelto. Esistono, secondo lo studioso, tre strategie generiche: “prodotti migliori e più costosi”, “prodotti meno costosi e sufficientemente buoni”, “prodotti che ti soddisfano così tanto che vuoi proprio quelli”.

Cosa è successo dopo?

Con Clayton Christensen è emerso che i prodotti più economici, se pure non erano così buoni, potevano avere un effetto disruptive sulle industrie. La disruption avveniva soprattutto dal punto di vista dei costi, che poi era la seconda dimensione della strategia generica di Michael Porter. La terza dimensione della strategia generica, che è sempre stata un po’ difficile da capire a causa del difficile linguaggio di Porter, è la customer intimacy, che di fatto vuol dire stare vicini al cliente. Poi c’è stato il successo della “Strategia Oceano Blu: vincere senza competere” (testo pubblicato nel 2005, scritto da W. Chan Kim e Renée Mauborgne, ndr). Un successo a mio parere dovuto all’introduzione del concetto secondo cui è possibile portare la disruption nelle industry attraverso una terza via. La terza via è arrivare veramente vicini a quello che il cliente vuole in un dato momento. Ma, se ci si pensa, questa è un’altra storia di disruption basata su una sola delle dimensioni della strategia.

E poi arriva “Big Bang Disruption”, il libro scritto da lei con Flurry Downes.

Il senso  di quel testo è che la tecnologia ci consente di portare disruption se si è i migliori in tutte le tre dimensioni che ho citato sopra. Michael Porter non lo aveva mai indicato.  Bisogna riuscire a stare a cavallo tra le tre dimensioni. Ma anche questa teoria non è più valida. In “Big Bang Disruption” spieghiamo che è possibile essere migliori dei competitor, e al contempo essere più economici, e allo stesso tempo più vicini al consumatore. L’esempio perfetto è quello di Waze, o Google Navigation: un’applicazione mobile gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobili, basata sul concetto di crowdsourcing, sviluppata dalla startup israeliana Waze Mobile, poi acquisita da Google nel 2013. Questo ci dà dunque almeno 4 modi di portare disruption nei settori industriali.  A questo punto però la domanda era diventata un’altra: dato che le industry erano e sono continuamente travolte dal vento della disruption a causa dalle tecnologie esponenziali, come devono reagire le aziende?

Come hanno risposto gli studiosi internazionali?

Che le aziende avrebbero dovuto liberarsi da quelle parti che non erano più utili, che erano vecchie, e cominciare a fare acquisizioni, a muoversi e a investire nelle parti nuove, fino ad arrivare a un nuovo modello. Quasi senza preoccuparsi se quell’azienda avrebbe avuto successo nel nuovo modello o meno.

E cosa propone di diverso “Pivot to the Future”?

Partiamo dal concetto che l’ossatura di un’azienda è composta da tre parti: l’old, il now e il new. L’old è quella parte creata dai fondatori. Secondo la precedente logica, conviene uscire da un business quando è vecchio. Nel mio libro, invece, si spiega che bisogna innovare nella parte old per quanto a lungo possibile, in modo da continuare a generare profitti e ottenere il danaro necessario a “raggiungere” il futuro. Anche nel “vecchio”, insomma, bisogna applicare l’innovazione e saper reinterpretare il business per garantire carburante alla crescita.

Qual è invece la logica del “now business”?

Finora si è pensato: bisogna “mungere la mucca”, poi, quando il business non funziona più, smettere di innovare. Ma non funziona. Occorre continuare a investire nel “now”, perché il now ha ancora maggiori opportunità con le nuove tecnologie. Non ha più senso smettere di investire in hi-tech per prendersi una pausa.

Verso dove si proietta il “new”?

Per quanto riguarda il “nuovo”, non è sufficiente limitarsi a partecipare quando invece ci si deve muovere in modo produttivo e bisogna scalare il business. L’obiettivo finale non è guadagnare pochissimo denaro pur avendo un ampio margine e farlo in un unico luogo. L’obiettivo è portare il prodotto o il servizio a tutti, renderlo popolare. E bisogna scalare in modo profittevole, recuperare gli investimenti. Una delle cose di cui abbiamo parlato di più in “Big Bang Disruption” è come scalare a costi efficaci.  Bisogna potenziare l’ecosistema, potenziare gli asset che già il cliente possiede. Per esempio sullo smartphone vengono sviluppate molte nuove app, e sono quindi asset di proprietà del cliente. Ma anche per quanto riguarda oggetti come le telecamere di sicurezza, in questo caso possono essere aggiunte nuove applicazioni a un’infrastruttura pre-esistente.

Quindi, oggi come oggi, disruptive innovation non significa più vendere prodotti migliori a basso costo?

In realtà il vecchissimo modello di vendere alle persone qualcosa che è migliore e costa di più ancora funziona. Penso ai farmaci. Si investe molto per fare in modo che i farmaci siano sempre più efficaci, ma spesso costano anche molto. Per una dose del farmaco contro l’epatite A ci vogliono 80 dollari: è tanto, eppure questa medicina, che prima non c’era, funziona davvero bene. In generale nessuno vuole farmaci meno efficaci solo perché sono meno cari.

Si può dire che oggi l’innovazione non è più così disruptive da distruggere completamente ciò che è vecchio?

Non esattamente. Il “vecchio” può essere distrutto, qualsiasi settore industriale può essere travolto dalla disruption. Probabilmente tutti possono essere “disrupted” da tutte e tre le dimensioni di cui parlavamo prima. Ma adesso siamo in una fase di continua deflazione dei costi della tecnologia. Perciò, se la tecnologia è parte della soluzione, e diventa ogni giorno meno costosa, anche i prodotti diventano più economici. È quello che è successo con i telefoni. Alcuni telefoni riescono appena a superare il migliaio di dollari, ma da un po’ di tempo la cifra non si è mossa.  Così è per il personal computer. Ho abbastanza anni da ricordare quando i computer costavano 35mila dollari. Poi sono scesi a 15mila, poi a 500 dollari. Quello che accade è che, quando la tecnologia continua a ridurre di molto i prezzi – penso ai games, ma anche al settore medico o a quello dei sistemi audio- i prodotti continuano a migliorare ma non si vedono grandi differenze di prezzo.

In sostanza cosa è esattamente un wise pivot?

Significa innovare nei tre cicli di vita “old”, “now” e “new”, invece che soltanto in uno di questi. Di solito siamo portati a innovare solo in uno dei tre, nel “new”. Il wise pivot è l’opposto della linearità, perché il vecchio entra nel nuovo, e il now funge da pivot.

Come può il wise pivot aiutare le organizzazioni a migliorare e diventare sempre più competitive?

È molto difficile capire il timing del cambiamento della tecnologia sui mercati. Una visione senza il timing è inutile. Tutti sanno che certe cose, prima o poi, succederanno. Il problema è che non si sa quando. Perciò i migliori manager devono essere capaci di gestire la tecnologia secondo determinate tempistiche Questo è il genio. I geni della leadership sono colori che riescono a gestire sia la visione sia la tempistica. Se il timing è sbagliato, e non stai usando il pivot, puoi perdere molto denaro, perché ti sei liberato di tutte le vecchie parti del business prima che arrivino quelle nuove. E se sia il timing sia il pivoting sono sbagliati, puoi restare troppo attaccato al vecchio e non fare niente nel nuovo. Lo vediamo spesso con le piccole imprese e le startup che sono così prese dal loro primo e importante prodotto che non si accorgono che il mercato si sta muovendo.

Quale leadership per il wise pivot?

Serve una pervasività della leadership. I nuovi leader devono saper gestire molteplici business e decidere quando investire nell’old, nel now e nel new. Occorre quindi sinergia tra i business. Un esempio è la leadership di  Netflix, che ha mosso i primi passi come servizio di noleggio di film in dvd per corrispondenza. Anche mentre l’azienda lanciava il suo servizio, che avrebbe inferto un colpo mortale alle società di noleggio tradizionali come Blockbuster e West Coast Video, il Ceo Reed Hastings stava preparando il passaggio alla fase new: la diffusione di contenuti video digitali in streaming a una clientela di abbonati. Il motore inferenziale sviluppato dall’azienda le ha fornito uno spaccato approfondito delle abitudini e preferenze di visualizzazione dei clienti. Ha così potuto fare il suo ingresso spettacolare nella nuova attività di studio di produzione, e nel 2018 ha superato i concorrenti tradizionali e i nuovi competitor in fatto di nomination agli Emmy. Ha saputo applicare il wise pivot. Ed è stato un successo.

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Luciana Maci
Luciana Maci

Giornalista professionista dal 1999, scrivo di innovazione, economia digitale, digital transformation e di come sta cambiando il mondo con le nuove tecnologie. Sono dal 2013 in Digital360 Group, prima in CorCom, poi in EconomyUp. In passato ho partecipato al primo esperimento di giornalismo collaborativo online in Italia (Misna).

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