Un uomo fuori dall’ordinario che ha condotto una vita fuori dall’ordinario, un pioniere che, alla fine degli anni Ottanta, ha convinto una grande azienda come Intel a fare qualcosa che non aveva mai fatto, investire in startup e imprese emergenti, ovvero a fare corporate venture capital: questo – e molto, molto altro – è Avram Miller, americano di origine ebraica che oggi vive in Italia, a Lecce, e che, a 80 anni, ha ancora l’entusiasmo, la creatività, l’intelletto e la voglia di fare di un ragazzo.
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Chi è Avram Miller
Uomo d’affari, venture capitalist, scienziato, esperto di tecnologia e musicista, Miller nasce nel 1945 negli Usa da una famiglia di modeste origini. Non si laurea mai, eppure si occupa di tecnologia per la medicina in vari altri atenei internazionali, arrivando a insegnare. Nel 1983 diventa Chief Operating Officer della Franklin Computer Corporation e le fa raggiungere 80 milioni di dollari di ricavi, ma una battaglia legale con Apple (persa) lo spinge a uscire. È allora che viene notato da Intel, che lo assume. Lo vogliono perché intuiscono che questo giovane uomo con un passato da genio ribelle può essere un “change agent“, un portatore di cambiamento in azienda. E così avviene.
Nel 1988, Miller diventa Vice Presidente dello Sviluppo Aziendale e successivamente è eletto Vice Presidente Corporate dal consiglio di Intel. Con il supporto del CEO Andy Grove, Vadász e Miller creano il gruppo Corporative Business Development (CBD), che in seguito prende il nome di Intel Capital.
Il gruppo di Miller investe in importanti realtà come Broadcast.com di Mark Cuban, Verisign, Broadcom, LAUNCH Media, GeoCities, CNET e Covad (ora parte di MegaPath Corporation). Inoltre, il gruppo finanzia CMGI (ora ModusLink Global Solutions, Inc.) e PCCW.
Lascia Intel nell’aprile del 1999 per fondare The Avram Miller Company, società di consulenza strategica e sviluppo business che fornisce servizi alle aziende internet a livello internazionale. Nel 2003 è stato classificato all’ottavo posto nella Forbes Midas List dei 100 migliori investitori tecnologici.
Il resto della sua lunga e brillante esistenza è raccontata nel suo libro “The Flight of a Wild Duck: An Improbable Journey Through Life and Technology“.

Parlare con Avram Miller è come fare un viaggio nel tempo, tra storia e tecnologia, per poi ripartire a razzo verso il futuro: un futuro che lo vede impegnato in un progetto con l’Istituto Italiano di Tecnologia (ITT) di Genova, ma anche ancora interessato alle startup innovative e, ovviamente, al trend del momento, l’intelligenza artificiale in tutte le sue molteplici declinazioni. “Con l’AI immagino, creo, è come se tornassi bambino” dice a EconomyUp. Perciò è da lì che partiamo per la nostra intervista, dalla sua infanzia.
L’infanzia di Avram: “alone but not lonely”
Lei racconta spesso di un’infanzia difficile. In che modo quelle esperienze l’hanno spinta verso la scienza, la tecnologia e l’innovazione?
Da bambino sono stato molto malato. Ho passato tanto tempo da solo, in un ospedale “speciale” per bambini, lontano dagli altri. Ero fisicamente isolato, ma avevo la mia immaginazione. Potevo creare immagini nella mente, cambiare le cose, costruire mondi. Questo ha formato il mio modo di pensare. Perché l’interesse per la tecnologia? È iniziato ascoltando un programma radiofonico che parlava di scienza, una mezz’ora di trasmissione ogni sabato. È stato allora che ho scoperto Einstein, è diventato il mio modello. All’epoca avevo problemi a legarmi le scarpe, ma mia madre mi disse: “Non preoccuparti, anche Einstein non riusciva a legarsi le sue scarpe.” Era una donna brillante, nonostante non fosse mai andata a scuola. Capì che quella mia curiosità andava coltivata, perciò cominciò a comprarmi cose come un microscopio, un kit di chimica, un kit elettrico, mi incoraggiò a esplorare. Ero “alone but not lonely”: da solo, ma non necessariamente infelice. Oggi mi chiedo spesso: se oggi fossi quel bambino, con l’AI cosa farei? E la risposta, in parte, è la mia vita attuale: con l’intelligenza artificiale mi sento di nuovo quel bambino, con la stessa curiosità, la stessa voglia di immaginare e sperimentare.
“L’AI è il mio buddy chat”
In alcuni speech parla di un rapporto “simbiotico” con l’intelligenza artificiale. Che cosa intende?
Ho scherzosamente battezzato ChatGPT “Buddy Chat”, è il mio compagno di esplorazione. Sono sinceramente grato di essere ancora vivo per poter vivere questa esperienza: ho 80 anni, se fossi morto, diciamo, tre anni fa, non avrei visto tutto questo. “Capire” qualcosa, per me, significa anche abbracciarla con passione. So benissimo che l’AI pone problemi seri – etici, sociali, politici – ma per me l’esperienza è profondamente positiva. E non credo che l’AI “spegnerà” il nostro cervello, credo che lo farà lavorare in modo diverso. Ma perché questo abbia sbocchi positivi, dobbiamo assumerci la responsabilità di come la progettiamo e di come la usiamo.
Controcultura e tecnologia: un binomio non banale
Lei è cresciuto nella stagione della controcultura. Quanto hanno contato quegli anni nella sua formazione di imprenditore e investitore?
Erano anni estremamente intensi. A 18–20 anni vivevo a San Francisco, che in quel momento era uno degli epicentri mondiali della musica e della controcultura. C’era tanto jazz, folk, rock and roll, tanta energia, tanto eccesso. Ho conosciuto Janis Joplin, i Jefferson Airplane… E tuttavia, a parte loro, trovavo che molta musica non era di qualità. Io venivo dal Conservatorio, suonavo il piano, facevo jazz e posso dire di essere stata una delle poche persone che all’epoca conosceva più di tre accordi.
L’AI per la musica
Che cosa le ha insegnato il jazz sul modo di guidare persone e progetti?
È l’unica forma musicale che si basa completamente sull’improvvisazione, quindi è la più creativa. Ti costringe ad assumerti dei rischi, ti permette di suonare senza sapere cosa suonerai, e devi fidarti di te stesso. Quando suoni con gli altri, devi ascoltarli, essere sincronizzato, ma anche aggiungere valore. Ora sono davvero interessato a tornare a scrivere musica, grazie all’IA. Ho alcune idee su come farlo, ma ci vorrà tempo, perché ci sono troppe deviazioni che mi incuriosiscono lungo il cammino.
Imparare ad assumersi rischi
Torniamo alla sua giovinezza. Oltre alla musica, in parallelo c’erano i civil rights, la protesta contro la guerra.
Sono finito in carcere per questo. Una volta mi sono letteralmente sdraiato sotto un camion per protestare contro il conflitto in Vietnam. Era un’epoca in cui molti di noi pensavano davvero di avere un certo potere sulla propria vita e un impatto sul mondo.
E c’erano molte persone creative. Ho sviluppato alcune relazioni che sono state molto importanti per me, come l’amicizia con il poeta Alan Ginsberg. Scrivevo poesie anche io. Ho fatto delle ricerche e sono rimasto scioccato nello scoprire che la mia corrispondenza con Ginsberg si trova nel suo archivio a Stanford, dove hanno raccolto tutti i suoi documenti. Ha conservato le mie lettere, non lo sapevo.
Il filo rosso era questo: non stavamo semplicemente “assistendo” alla storia, cercavamo di far succedere le cose. Assumersi dei rischi faceva parte di quel contesto.
Poi ha avuto a che fare con gli imprenditori, che rischiano per mestiere.
C’è un equivoco fondamentale: non dovresti assumerti dei rischi per il gusto di farlo. Dovresti farlo perché vuoi che qualcosa accada, perché hai un obiettivo che consideri importante.
Tutti gli imprenditori che conosco – quelli veri – non sono “risk junkies”. Non crei un’azienda perché ti piace il brivido del rischio; al contrario, cerchi di ridurlo al minimo possibile. Ti assumi il rischio necessario per far accadere qualcosa che altrimenti non accadrebbe, non il rischio “eroico” per costruire un mito personale.
Questo valeva nelle proteste degli anni ’60 e vale nelle startup: se rischi senza una buona ragione e senza una strategia, non sei coraggioso, sei semplicemente imprudente.
Intel e il ruolo di “change agent”
Passiamo ai suoi anni in Intel. Lei ha detto: “Ho cambiato alcune cose, ma non abbastanza”. Che cosa non ha funzionato nel rapporto tra innovazione e grande azienda?
Quando entri in una grande azienda di successo, entri in un organismo che, proprio perché ha avuto successo, tende a difendere lo status quo. A parole tutti dicono di voler cambiare. Nei fatti, molti non vogliono. Andy (Andrew Stephen Grove, ingegnere e imprenditore ungherese naturalizzato statunitense che ha partecipato alla fondazione della Intel e ne è stato a lungo presidente, ndr) mi chiese di entrare in Intel dicendo: “Abbiamo bisogno di aiuto per cambiare”. Era il 1984. Quello che voleva davvero – l’ho capito dopo – era qualcuno che facesse cambiare gli altri. Io ero, per natura, un change agent: mi interessava il futuro, non il passato. Ma in un ambiente molto strutturato, le persone che spingono per il cambiamento non si sentono sempre a loro agio, e spesso non sono viste con simpatia.
Eppure ha fatto nascere il primo corporate venture capital di Intel, e forse della storia. Cosa ha funzionato e cosa no?
Con il corporate venture e lo sviluppo del business avevamo tre obiettivi. Il primo era strategico: aiutare Intel a evolvere la sua strategia ottenendo spunti e intuizioni lavorando con aziende in fase iniziale (early stage). Il secondo obiettivo era far crescere l’attività di Intel attraverso relazioni e investimenti in aziende in fase iniziale. Il terzo obiettivo era ottenere un buon ritorno finanziario dall’investimento.
Sulla carta l’ordine delle priorità era 1-2-3. Nella realtà, spesso si partiva dal punto 3… e si risaliva, forse, verso gli altri. Questo è un problema tipico quando si porta il venture capital dentro un gigante industriale.
“Non abbiamo investito in qualcosa, abbiamo fatto accadere qualcosa”
Lei è stato uno dei primi a spingere sul broadband via cavo. Com’è andata davvero?
Nel 1992 ho pensato di usare la rete via cavo per portare la banda larga. Ho coinvolto anche una compagnia telefonica per creare una situazione competitiva. Ho investito in ogni aspetto dell’internet per i consumatori. Quello è stato il motivo per cui ho guadagnato così tanto. Fondamentalmente, stavo guidando il cambiamento. Mentre i venture capitalist non riuscivano a farlo, io potevo incontrare Brian Roberts di Comcast e fargli fare ciò che volevo. Eravamo una compagnia enorme, la gente ci ascoltava.
Il risultato è che non solo abbiamo investito in qualcosa, ma abbiamo fatto accadere quella cosa. Questo è quello che i venture capitalist non fanno, mentre può farlo un corporate venture capital. Con il tempo, ho visto che l’iniziativa per la banda larga è diventata fondamentale per il business di Intel. Quando, infine, hanno riconosciuto il mio ruolo, devo dire che sono stato grato.
Detto questo, non è stato facile. Quando ho iniziato a lavorare sul broadband, Andy era convinto che non ci fosse un mercato per connettere i PC: pensava che stessi perdendo tempo. A un certo punto eravamo rimasti in tre – letteralmente tre persone – a portare avanti quell’iniziativa. Dal punto di vista organizzativo, era quasi folle.
Alla fine, quando divenne chiaro che “sotto la baia c’era davvero l’oro”, per usare una metafora, ci fu un riconoscimento. Andy era contento di me. Ma io non ero del tutto contento di come l’azienda, nel complesso, abbracciava il cambiamento. È il paradosso delle organizzazioni di successo: sono bravissime a estrarre tutto l’oro da un modello esistente, molto meno a cercarne di nuovo altrove.
È in quell’occasione che ha conosciuto Bill Gates e Steve Jobs?
In realtà ho pranzato con Gates e Jobs quando erano entrambi molto giovani. Bill Gates, secondo me, non è il più grande stratega del mondo, almeno non nel senso in cui spesso se ne parla. È, invece, probabilmente la persona più competitiva che io abbia mai incontrato. Qualsiasi cosa stesse succedendo nel settore, voleva farne parte. Non sopportava l’idea di essere escluso da un gioco.
Steve Jobs, a quel tempo, non mi fece una grande impressione immediata. Era in un mondo molto diverso dal mio. Ma era evidentemente una personalità potente. Aveva carisma, ti entrava nella testa. Più tardi, quando abbiamo lavorato con lui, l’ho visto all’opera: era molto creativo, aveva grandi intuizioni strategiche su come guidare un’azienda.
Ricordo che una volta, a una conferenza, Steve si sedette accanto a me e pensai “Oh mio Dio, spero che non mi chieda di lavorare per lui!”. Sì, voglio dire, come persona non mi piaceva, ma mi piaceva quello che faceva.
Le startup e la strategia OSTER
Come valuta oggi una startup? Ha un suo metodo?
Nel tempo mi sono costruito un piccolo schema mentale con quattro elementi: opportunity, strategy, execution, reward. In acronimo, Oster.
Un’opportunità non è qualcosa che crei, ma qualcosa che riconosci. Mi piace fare l’analogia con il surf: se hai una tavola da surf, devi comunque andare su una spiaggia che abbia onde, perché non puoi creare un’onda. Quasi tutte le imprese di successo, penso, devono cavalcare un’onda, perché non hanno risorse sufficienti per fare tutto. Devono esserci condizioni favorevoli su cui basarsi. L’opportunità è fondamentale, ma la buona notizia è che ce ne sono molte. Non faresti qualcosa se non fosse una buona opportunità.
Il passo successivo è la strategia. Ci sono diversi modi per affrontare un’opportunità e alcuni sono migliori di altri. Quando parlo con gli imprenditori, chiedo loro di descrivermi prima l’opportunità. Se non penso che ci sia una vera opportunità, finisce lì, non c’è motivo di proseguire. Poi chiedo quale strategia intendono seguire. Dopo che mi spiegano la loro strategia, chiedo quali altre strategie hanno considerato. Se ne hanno pensato solo una, non voglio lavorare con loro.
Se mi piace la strategia, il passo successivo è l’esecuzione, cioè come la metteranno in pratica. Qui è dove molte aziende falliscono, perché non eseguono correttamente. E uno dei motivi per cui falliscono è che non raccolgono abbastanza soldi. Non lo fanno perché non possono, ma spesso è anche perché sono troppo ottimisti sui tempi. Soprattutto se si tratta di tecnologia, tendono a pensare che le cose accadranno più velocemente di quanto non avvenga in realtà.
Cosa succede se tutto funziona? Qual è il premio, per i fondatori, per gli investitori, per la società?
Un esempio è Oura, società che propone uno smart ring per monitorare i parametri corporei, su cui ho investito: l’abbiamo valutata quando aveva una pre-money valuation di circa 6 milioni, e abbiamo investito una cifra complessiva molto superiore a quella valutazione iniziale. C’era una chiara opportunità, una strategia sensata. Poi, ovviamente, servono execution e un po’ di fortuna.
La verità è che la maggior parte delle startup fallisce. Per certi versi bisogna essere un po’ matti per fare l’imprenditore. Io non sono mai stato davvero un imprenditore e non ho mai voluto esserlo. Ho lavorato al loro fianco, ho investito negli imprenditori. E ho imparato che la fortuna resta una componente enorme: quando le persone diventano fortunate, tendiamo a riscrivere la storia come se fosse tutto inevitabile. Non lo è quasi mai. La fortuna è un pericolo per gli imprenditori, perché pensano di essere troppo intelligenti e dimenticano di essere umili. Questo potrebbe renderli meno aperti.. Perciò restano essenziali l’onestà e l’umiltà.
Lo sguardo al futuro
Guardando avanti, che tipo di startup e tecnologie cambieranno davvero il mondo nei prossimi anni?
Non credo si possa prevedere nulla con certezza. Certamente l’IA avrà un grande, sebbene il tasso di cambiamento sia ora così rapido che è quasi impossibile starci dietro. La velocità è tale che nessuno può essere così presuntuoso da dire: “So esattamente dove andrà il mondo”. Puoi creare ipotesi, costruire portafogli, imparare in fretta, correggere. E qui il venture capital fa la differenza. Il motivo per cui funziona è che i venture capitalist e gli imprenditori non sono sulla stessa lunghezza d’onda: l’imprenditore ha una sola azienda, mentre il venture capitalist potrebbe averne 20. Il venture capitalist usa una strategia di portafoglio: fa molte scommesse e spera che una o due di queste scommesse abbiano successo, mentre le altre falliranno. Se sei un venture capitalist, devi puntare su molte cose e sperare che qualcuna di queste abbia successo. Anche se è una bolla, speri comunque di fare soldi. Se sei un imprenditore, sei pazzo. Punto. Puoi diventare incredibilmente ricco, certo. Ma io non ho mai fatto nulla per soldi. I soldi non sono mai stati il mio motore.
L’impatto di un investitore sulla società: “Fare del mondo un posto migliore”
E qual è il suo motore?
Rendere il mondo un posto migliore. Ci sono solo due cose che mi danno un senso: una è godermi la vita, l’altra è fare del mondo un posto migliore. Questo mi è stato insegnato come valore fondamentale. Lo collego alla mia identità ebraica: c’è una forte tradizione di responsabilità, di impegno verso la comunità, di attenzione a come usi i tuoi talenti. Per me fare venture capital o innovazione ha sempre avuto anche questa dimensione: non solo “come moltiplico il capitale”, ma “che impatto posso avere sulle persone, sulla società, sul futuro”.
Oggi vive in Italia ed è il primo IIT Fellow, un riconoscimento per figure di rilievo nel campo della scienza e dell’innovazione. Che cosa vede nel nostro Paese, in termini di ricerca e venture capital?
L’Italia ha un’enorme ricchezza di talento e di ricerca. Lavorare con l’IIT mi ha permesso di osservare da vicino progetti straordinari. Ma l’Europa, complessivamente, è molto debole sul fronte del technology transfer: non siamo bravi a trasformare ricerca in aziende, in prodotti, in industrie. In questo, Israele dovrebbe essere un modello di riferimento.
Un tema che mi sta molto a cuore è quello dell’inverno demografico. Sto vivendo in Italia, vedo da vicino tutte le questioni legate all’invecchiamento della popolazione. Mi chiedo: cosa posso fare io per l’Italia su questo tema? Mi piace l’idea di “turning silver into gold”: trasformare l’età avanzata in un’opportunità, non in una condanna.
Qui entrano in gioco la tecnologia e l’AI, ad esempio sugli studi sulla demenza, sulla salute cognitiva, sulla produttività delle persone anziane. È anche un modo per capire meglio me stesso: invecchiando ti chiedi chi sei, che cosa puoi ancora fare.
Per fare davvero la differenza, però, non basta la ricerca: bisogna capire come usare il venture capital per obiettivi industriali, avere un vero industrial purpose. Se hai un sovereign fund, puoi costruire un piano industriale coerente: decidere dove vuoi che vada il Paese nei prossimi 20–30 anni.
L’Italia come laboratorio globale per contrastare l’inverno demografico
Ha una visione molto precisa sul ruolo che l’Italia potrebbe giocare sull’inverno demografico. Qual è la sua strategia ideale?
Io credo che l’Italia potrebbe diventare un laboratorio globale per affrontare l’inverno demografico. Genova, ad esempio, ha tutte le caratteristiche per essere un hub in questo campo. Vedo quattro grandi strategie possibili per affrontare il problema. La prima, e la più ovvia, è l’immigrazione: portare nuove persone ed energie. Tuttavia, questa soluzione da sola non è sufficiente e può creare complessità politiche e sociali. Un’altra via è quella della robotica, una strada che Paesi come Giappone e Cina stanno già percorrendo, utilizzando i robot per compensare la carenza di forza lavoro. È una strategia importante, ma i cambiamenti non saranno rapidi. La mia preferita, invece, è quella di rendere le persone più sane e produttive più a lungo. In questo caso, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie e i nuovi farmaci possono fare la differenza. Esistono già terapie che aggiungono mesi di vita sana ogni anno e, accumulando questi incrementi, l’impatto nel tempo è enorme. Infine, c’è chi sceglie di ignorare il problema, una strategia che, purtroppo, è la più diffusa.
Se decidiamo di non ignorarlo, allora dobbiamo re-immaginare il lavoro e l’economia: quali ruoli avranno le persone di 70, 80 anni? Che tipo di formazione servirà? Come useremo la tecnologia per supportarle?
L’Italia, per struttura demografica e cultura, può essere un laboratorio perfetto. Ma conto che avremo modo di riparlarne. Ho ancora tante cose da fare alla mia età.








