Come cambia il design in un mondo attraversato da sfide sistemiche, crisi globali e intelligenze artificiali generative? In un contesto in cui le organizzazioni si muovono in spazi sempre più incerti e interconnessi, il design viene chiamato a superare il solo problem solving per diventare una pratica capace di orientare il cambiamento e creare nuovi significati.
All’interno del CLUB 2026 dell’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano, le riflessioni di Anna Rylander Eklund (Chalmers University), Brian Dixon (Ulster University), Francesco Chiaramida (Assist Digital) e Claudio Dell’Era (Politecnico di Milano) hanno esplorato come il design possa evolvere per operare in contesti complessi e “wicked”, tipici della nostra more-than-human society.
Indice degli argomenti
Design thinking oltre il problem solving: la sensibilità come leadership
«Sensibility driven design is a leadership issue rather than an issue of problem solving», sottolinea Anna Rylander Eklund. Nella sua ricerca propone di considerare la sensibilità come la vera competenza chiave del designer contemporaneo e, sempre più, anche del manager e del leader che guidano processi di innovazione. Negli ultimi vent’anni il design thinking ha costruito la propria rilevanza sulla capacità di risolvere problemi complessi, ma oggi i problemi spesso non sono chiari né circoscrivibili, e richiedono un diverso tipo di ascolto.
Non c’è più un unico “utente” con un bisogno definito, ma una rete di soggetti, umani e non umani, interconnessi e in costante trasformazione. In questo scenario la sensibilità smette di essere un tratto “soft” o individuale e diventa un mindset operativo: consente di percepire segnali deboli, intuire connessioni e articolare visioni alternative. «Creating and having visions of better worlds is perhaps the most important thing we can do», ricorda Rylander Eklund, riportando il design al suo nucleo originario di pratica che immagina e rende possibili mondi migliori.
In questa prospettiva, la sensibilità diventa anche una competenza manageriale. Aiuta a leggere il contesto, a prendere decisioni più consapevoli e ad agire in modo corale, non solo reattivo. È una forma di leadership riflessiva, potenzialmente collettiva, che guida l’azione quando le certezze vengono meno e richiede di allenare una pratica continua di ascolto e interpretazione.
Il design come filosofia d’azione nei contesti complessi
A questa visione si collega l’intervento di Brian Dixon, che invita a riscoprire il design non come teoria astratta né come processo lineare, ma come una vera filosofia dell’azione. Il design, in questa lettura, è un modo di pensare e agire che nasce dall’esperienza e si sviluppa nel dialogo con gli altri, all’interno di contesti in cui l’esito non è mai completamente prevedibile.
“Design as a philosophy for action” significa riflettere nell’esperienza e non solo sull’esperienza: imparare mentre si sperimenta, costruire relazioni e agire attraverso cicli di tentativi e aggiustamenti continui. Tra i concetti più forti ripresi da Dixon c’è quello di gioco (play), ispirato ai filosofi pragmatisti come John Dewey e Jane Addams, per cui il giocare è una forma di apprendimento attivo e di esplorazione etica. Il play diventa così un laboratorio di possibilità a basso rischio, in cui testare idee e ruoli.
In questo spazio “protetto”, il gioco consente di provare scenari futuri senza la paura del fallimento. Qui emergono l’immaginazione, la creatività e l’etica del design: la capacità di anticipare le conseguenze delle proprie azioni e valutarne l’impatto prima che diventino realtà. Per Dixon, giocare, sperimentare e riflettere sono tre facce della stessa pratica progettuale, che permette al design thinking di guidare il cambiamento aiutando comunità e organizzazioni a immaginare e costruire futuri migliori.
Design thinking e intelligenza artificiale: il designer mediatore
Se sensibilità e pratica sono le radici di un design capace di muoversi nell’incertezza, la tecnologia – e in particolare l’intelligenza artificiale generativa – ne ridefinisce i confini. Come osserva Francesco Chiaramida, oggi il design è chiamato più che mai ad allenare competenze da mediatore: tra umano e tecnologia, tra ideazione e automazione, tra sistema e individuo, ripensando il ruolo stesso del designer-ricercatore.
L’AI sta modificando la natura della progettazione e riporta al centro la ricerca come motore di senso nei processi complessi. Il designer diventa ricercatore-esploratore e facilitatore, capace di orchestrare interazioni tra intelligenze e prospettive eterogenee: umane, artificiali, organizzative. Questa mediazione non è un’abilità solo tecnica, ma soprattutto culturale: significa saper formulare domande di qualità, comprendere quando e come delegare alla macchina e riconoscere i limiti cognitivi e simbolici dei modelli generativi.
Nuove sensibilità critiche nel design thinking
In questo contesto, il designer può allenare nuove forme di sensibilità critica. Si tratta di imparare a leggere i bias dei sistemi, negoziare con l’opacità degli algoritmi e costruire processi in cui si prototipa con la macchina come si farebbe con un collaboratore non umano. Il design thinking diventa così un terreno privilegiato per sperimentare modalità di collaborazione in cui AI e persone contribuiscono in modo complementare.
La pratica progettuale si trasforma in un continuo dialogo con l’AI, in cui il designer definisce cornici, obiettivi e criteri di valutazione. Non si tratta solo di accelerare compiti operativi, ma di usare l’intelligenza artificiale per aprire possibilità, mettere in discussione pregiudizi e generare nuovi punti di vista. La mediazione con l’AI diventa quindi un elemento strutturale della professione, da sviluppare come competenza chiave del design thinking.
Dal problema al sistema: il ruolo del design thinking nei cambiamenti
Claudio Dell’Era propone una visione che connette i diversi contributi in un quadro evolutivo del design contemporaneo. Il designer è chiamato a essere un agente attivo del cambiamento, capace di operare oltre i confini del problem solving tradizionale. «Il design non si limita più a risolvere problemi», osserva, «ma contribuisce a costruire senso, interpretare sistemi complessi e orientare l’azione in una more-than-human society».
Questo passaggio richiede una postura riflessiva: il designer non cerca più certezze derivate dall’esperienza, ma coltiva il dubbio come pratica professionale, già radicata nella cultura del progetto. Il dubbio diventa disciplina dell’ascolto e dell’apertura, che permette di sospendere l’automatismo della risposta per interrogare di nuovo contesto, relazioni e impatti. Allenare una reflective practice significa trasformare il pensiero critico in ritualità progettuale, rileggendo in modo continuo decisioni, strumenti e pregiudizi.
In questo scenario, l’intelligenza artificiale generativa segna una discontinuità radicale: è la prima tecnologia che entra in profondità nel dominio della cognizione, finora esclusivamente umano. Non è solo un supporto operativo, ma un attoreche partecipa alla costruzione di significato, suggerendo, traducendo e interpretando. Uscire dal dibattito tra augment e automate significa riconoscere che la vera trasformazione riguarda il modo stesso di progettare e decidere, rendendo il designer un curatore di processi cognitivi condivisi.
Abitare l’incertezza: il nuovo mandato del design
Dai contributi dei relatori emerge un messaggio chiaro: il design non è una disciplina per gestire l’incertezza, ma per abitarla. In un mondo dove le sfide sono globali, interconnesse e in continua evoluzione – dal cambiamento climatico alle trasformazioni tecnologiche – il design thinking deve spostarsi dal reagire al creare, ridisegnando ruoli e responsabilità dentro le organizzazioni.
Questo implica una ridefinizione del ruolo del designer e, più in generale, di chiunque guidi processi di innovazione. Alcune competenze diventano centrali: sensibilità, per percepire e articolare nuovi significati; pratica riflessiva, per sperimentare e apprendere dall’azione; mediazione, per integrare intelligenze umane e artificiali; agency critica, per agire in modo consapevole e sistemico all’interno di contesti complessi.
Il design thinking smette così di essere solo uno strumento per innovare prodotti o servizi e diventa un modo di pensare e agire che permette a persone e organizzazioni di muoversi verso l’ignoto con maggiore consapevolezza. «We define sensibility as a mindset and set of skills developed through continuous practice…», ricordano le parole di Rylander Eklund: è proprio questa combinazione di sensibilità e pratica, immaginazione e riflessione, che aiuta leader e organizzazioni a orientarsi in tempi incerti.
Il design offre oggi una lente per rileggere il management: non più come arte del controllo, ma come arte della connessione e del movimento. In questo spazio di esplorazione condivisa, tra umani, tecnologie e sistemi complessi, il designer torna al suo ruolo più autentico: quello di agente che immagina e costruisce mondi possibili, mettendo il design thinking al centro di nuove forme di responsabilità collettiva.








