Il nuovo turismo

La nostra mappa tra Italia e Silicon Valley

Da Bologna a San Francisco e ritorno: è la storia di Pietro Ferraris, cofondatore di Map2App, sistema che permette di esplorare una città seguendo un tema. Che qui racconta come si convince un amico a lasciare l’Ente Spaziale Europeo per una nuova impresa. E perché è importante pensare in grande

Pubblicato il 17 Lug 2014

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Da Bologna a San Francisco, e ritorno. Pietro Ferraris era già uno startupper realizzato, quando ha lasciato la sua prima creatura, è salito su un aereo ed è atterrato in Silicon Valley con un’idea in testa, quella che ha generato Map2App, una delle startup italiane nel ramo turismo più interessanti in circolazione. Creano mappe e guide per l’esplorazione di un territorio da parte di un viaggiatore, i punti di forza sono i costi e la versatilità del prodotto. La prima città è stata Bologna, ma in questi due anni, le idee originali ai tre fondatori di Map2App non sono mancate: con i loro strumenti, oggi si può esplorare la New York raccontata dai film di Woody Allen o fare un tour delle case infestate dai fantasmi di New Orleans.

Il primo tema che emerge dalla storia di Pietro è un dilemma tipico di ogni ecosistema innovativo: fermarsi ai primi risultati buoni o rimettere tutto in gioco per un obiettivo più grande, un progetto più interessante e globale? Nel 2007, Ferraris, che oggi ha 35 anni, era stato tra i fondatori di Econetica (oggi Noody), un’azienda che ha costruito mercato e successo sull’installazione di wi-fi negli alberghi. “È stato molto difficile lasciare la mia prima azienda”, dice. E allora perché questa scelta? “L’azienda non era scalabile, non puoi andare a installare il wi-fi negli hotel all’estero ed essere competitivo. Insomma era un progetto con cui si viveva e guadagnava bene, ma non era la società che io sognavo, capace di fatturare milioni di euro e diventare globale”.

Il passaggio di consegne, anche (o forse soprattutto) in un’azienda piccola è un affare complicato. “Ci abbiamo messo un anno, ho affiancato il nuovo Ceo, e ancora oggi vengo chiamato in causa, perché sono la memoria storica di quell’azienda, e a volte sono ancora il solo ad avere la chiave per risolvere certi problemi”. Ma ormai Noody è il passato, Map2App è il presente. Il loro è un business b2b, quindi i loro clienti (e quelli che pagano) non sono i consumatori finali ma gli enti che commissionano la creazione dell’app: città, parchi nazionali, ambasciate (hanno per esempio lavorato con quella italiana a Washington per creare un percorso degli eventi dell’Istituto italiano di cultura negli Stati Uniti). Insomma, se voglio valorizzare il mio territorio con uno strumento digitale, posso andare da Map2App che per un prezzo che è dai 299 dollari a salire, mi crea l’app che poi farò scaricare gratuitamente ai viaggiatori.

Un altro aspetto importante è il team: ho un progetto ambizioso, voglio il tecnico migliore che conosco, ma lui ha un lavoro da sogno. Come lo convinco? È stato il problema di Pietro quando, insieme al co-fondatore Simone Biagiotti, si è messo in cerca di qualcuno in grado di scrivere codice per le sue app. Ricerca breve: Pietro aveva il nome, aveva il profilo: Michele Orsi. Prima di diventare il terzo socio di Map2App, Orsi lavorava all’Esa, l’Agenzia Spaziale Europea. Pietro gli ha offerto la possibilità di tornare a scrivere codice a tempo pieno (all’Esa era sommerso dalle scartoffie) e di partecipare alla “discussione ideologica alla base del progetto”. E poi un terzo delle quote. Accordo fatto, Orsi ha lasciato l’Agenzia Spaziale Europea per un’azienda che esisteva solo sulla carta.

Terzo tema, l’America. L’orizzonte mentale dei nuovi imprenditori italiani ambiziosi. Ma prima un passo indietro. I primi soldi a Map2App sono arrivati con la vittoria di un bando del comune di Bologna e da quella prima app per esplorare il capoluogo emiliano. “Abbiamo vinto 30mila euro, ci siamo sentiti le spalle coperte e abbiamo creato lo spinoff di Econoetica”. Siamo all’inizio del 2012, Pietro va a vivere a San Francisco, dove crea una Inc con il progetto di cui Simone e Michele erano soci. Gli ultimi due rimangono in Italia per lo sviluppo tecnico, Pietro vive un anno a mezzo negli Stati Uniti per cercare clienti e finanziamenti.

La trafila è quella tipica: un angel investor, un seed da 100 mila dollari, un advisory board con professionisti importanti (manager di Yahoo! e Lonely Planet per esempio), incontri, cene, strette di mano e il primo cliente importante: California State Parks. Dopo un anno e mezzo però Pietro torna in Italia: “Un po’ per motivi personali, mi era nato un figlio che volevo far crescere in Italia, e un po’ perché mantenere un socio a San Francisco stava costando troppo all’azienda”.

Arrivano i mesi migliori per Map2App: “Dopo un periodo economicamente nero, nel primo semestre 2014 abbiamo raggiunto il pareggio. Ci abbiamo messo due anni a dimostrare che il prodotto aveva un senso. Ora puntiamo a un secondo round di finanziamenti”. Intanto per Pietro è il momento del primo round di bilanci e di confronti. “La Silicon Valley non è il paradiso, e il modello ha diversi buchi: sono perennemente in bolla, continuano a finanziare startup che non avranno mai revenue”.

Ma a fronte di questo corsa all’oro che brucia capitali enormi, la differenze con l’ecosistema italiano sono ancora enormi: “Una chiave che secondo me è importante è la sua capacità di assorbire chi non ce la fa. Lì se la tua startup chiude, vieni assunto da Google o da Zynga, qui vivi con lo stigma del fallimento. Così si soffocano generazioni di imprenditori”.

E poi il problema di accesso al capitale. Che non è solo, secondo Pietro, spiegata dalla difficoltà di ottenere finanziamenti anche piccoli dagli investitori (“sudare mesi per strappare 50 mila euro”) ma anche da tutto il sistema degli incubatori e degli acceleratori. Pietro li definisce una spugna, che assorbe soldi dall’alto, ne trattiene una gran parte e fa scivolare verso le startup solo le gocce. “La verità è che stiamo diventando un’altra India per la Silicon Valley, tanto talento tecnico, costo del lavoro più basso che in America e poca cultura imprenditoriale”.

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