Rebranding

Startup, quando (e se) è ora di cambiare nome

La denominazione può incidere moltissimo sul successo e sul posizionamento nel mercato di una società. Da AdNear all’italiana Waynaut, ecco alcuni casi di imprese che hanno modificato il proprio brand nei momenti di crescita o di revisione del proprio core business. O semplicemente perché alcuni termini creavano errori/orrori semantici

Pubblicato il 13 Ago 2015

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«Che cosa c’è in un nome?», diceva Giulietta al suo amato Romeo nel famoso dialogo del balcone di Shakespeare. Ma nel XVI secolo, ai tempi in cui il poeta inglese scriveva il dramma dei due giovani amanti non si sentiva parlare di brand strategy e brand naming, le specializzazioni del marketing che si occupano di definire il nome/marchio di una società affinché possa trasmettere in poche lettere la propria mission, sia credibile, rispecchi bisogni ed emozioni del proprio target, aiuti la fidelizzazione del cliente e sia chiaramente distinguibile dai concorrenti.

Tutto questo in un solo nome. Possibilmente breve e necessariamente corrispondete a una url. Da come una società è chiamata può dipendere il suo successo e il suo posizionamento nel mercato, per questo i loro fondatori spendono molto tempo (e denaro) nella ricerca di un’identità che funzioni commercialmente.

Ma il nome è davvero per sempre? Alcune startup hanno dovuto cambiare denominazione dopo un’operazione di pivoting o dopo un importante investimento che ha permesso loro di scalare il mercato globale, perché si sono accorte che la scelta iniziale non corrispondeva più al nuovo modello di business. Il rebranding a volte è un’esigenza commerciale, in altri casi è imposto dai nuovi soci.

Fabian Geyrhalter, fondatore della branding agency Finien e co-autore del libro How to launch a brand ci ha spiegato perché è così difficile per una startup indovinare il nome giusto. «Spesso si affrettano a entrare nel mercato – dice l’esperto di branding – e hanno poche risorse di tempo e denaro da investire per trovare una denominazione senza tempo che descriva bene la società e non soltanto una funzione. La maggior parte delle startup cambiano il loro core business quando crescono, soprattutto nei primi 6-12 mesi dopo il lancio. Allora il rebranding diventa necessario. Se un nome induce in errore i consumatori su quelli che sono i prodotti o i servizi offerti, oppure se risulta offensivo in un particolare mercato, senza dubbio va cambiato, anche se questo ha un costo».

Geyrhalter è uno dei sostenitori del timeless brand, del brand senza tempo, che non passa mai di moda e diventa identificativo della società, fin dalla sua fondazione, e cita spesso Coca Cola come quintessenza del marchio immortale. Uno degli errori degli imprenditori, invece, è di voler seguire le mode del momento che a lungo andare risultano obsolete. «Far vagliare il nome da professionisti prima del lancio – dice Geyrhalter – è una priorità. Un nuovo brand può cambiare il suo marketing, la sua messaggistica e il suo logo, ma il nome è la parte peggiore da modificare nel branding mix perché ha un impatto negativo su tutte le operazioni commerciali e sulla costruzione del marchio. Ri-abituare i clienti acquisiti e quelli nuovi è una pratica difficile e costosa, e bisogna mettere in conto una perdita fisiologica di persone lungo la strada. Ma se un cambio è necessario, allora deve essere progettato strategicamente per garantire il minimo impatto negativo sui prodotti, sulla commercializzazione e sul marketing».

Di startup che non hanno avuto la stessa lungimiranza (e fortuna) di Coca Cola nella denominazione c’è una lunga lista. Per tutte quante il rebranding è stata una scelta obbligata e non poco dispendiosa. AdNear, per esempio, una startup con sede a Singapore, ha iniziato lanciando un sistema di identificazione geografica in grado di tracciare i dispositivi mobili senza avvalersi della tecnologia gps, utilizzato da grandi compagnie, quali Volkswagen, Toyota, Samsung, e Coca Cola, per inviare messaggi promozionali targettizzati in base alla geolocalizzazione del consumatore.

Lo scorso ottobre, ha ricevuto un finanziamento di serie B pari a 19 milioni di dollari che ha consentito un’espansione della mission oltre il semplice advertising, spostandosi su tutto quello che comprende il marketing data-driven. È stato, quindi, deciso di togliere il prefisso “Ad” e lasciare soltanto il nome “Near”. «È stata una progressione naturale perché le cose sono cambiate notevolmente nel corso del tempo», ha spiegato Anil Mathews, fondatore e ceo di Near a TechInAsia. «La ridenominazione non è avvenuta senza dolore – continua – perché AdNear era un nome unico, mentre Near è una parola comune. Potete immaginare quanto questo incida nel SEO. Abbiamo perso anche in brand equity con il cambio di nome, ma credo che il nuovo marchio rifletta quello che facciamo e la direzione intrapresa».

Robert Laing, tra i fondatori della piattaforma di traduzione Gengo (che nel 2012 ha eliminato il prefisso my dal nome), ha raccontato quanto costoso sia stato il processo di rebranding. «Prendere un’agenzia che si occupi della ridenominazione – dice Laing – può costare quanto un’auto di lusso e ci possono volere come minimo 8 settimane, senza contare che il processo assorbirà circa l’80 per cento del tempo del management».

News in Shorts, una startup indiana, inizialmente forniva notizie in 60 parole ai lettori che si aggiornavano tramite dispositivi mobile. Dopo un finanziamento di 4 milioni di dollari a inizio anno, ai quali si sono aggiunti altri 20 milioni di dollari lo scorso mese, ha iniziato a trasmettere diversi contenuti multimediali, come video, podcast, infografiche e materiale di intrattenimento.

Il nome News in Shorts non era più pertinente ed è stato cambiato con InShorts. Anche la startup italiana Waynaut, inizialmente si chiamava Youmove.me e il rebranding è avvenuto quando hanno deciso di spostare il focus (e quindi il business) dall’utente finale agli operatori del settore turistico che possono avvalersi della piattaforma per una pianificazione completa dei viaggi.

Poco consigliati anche i nomi “stranieri” rispetto al mercato di riferimento. La startup indiana TapCibo, con sede a Bangalore, per esempio, ha dovuto cambiare da poco la denominazione in Dazo. I due fondatori, Shashaank Shekhar Singhal e Monica Rastogi, avevano scelto la parola italiana “cibo” per poi accorgersi che in indiano non veniva pronunciata nello stesso modo e non era facilmente comprensibile. Dopo aver ricevuto un importante finanziamento da una cordata di investitori, tra i quali anche i responsabili Google e Amazon in India, è stato deciso il rebranding usando un termine senza significato che ricorda un po’ l’inglese dazzle (bagliore).

A volte, poi, si inciampa in veri e propri orrori semantici. Una società americana di analisi cromatografica si è affidata a un’agenzia specializzata per avere un marchio vincente. Dall’unione delle parole “analytical” e “technology”, è venuto fuori AnalTech. Nessuno si è accorto dell’errore/orrore finché non è stato troppo tardi. Cinquant’anni dopo hanno cambiato il dominio in ichromatography, ma permane l’associazione al brand AnalTech.

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