SCENARI 2014

Il no profit si gioca la carta dell’innovazione

Intervista a Giorgio Righetti, Acri (Fondazioni di origine bancaria): “Nel 2014 continueremo a sostenere il terzo settore con strategie finanziarie innovative e supporto a giovani e start up. Ma serve un cambio culturale e di strategia politica”

Pubblicato il 23 Dic 2013

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Giorgio Righetti, direttore generale dell’Acri

Strategie finanziarie innovative, crowdfunding in salsa italiana, sostegno a giovani e start up: questo il bagaglio del no profit per attraversare in buona salute il 2014, grazie anche al sostegno delle Fondazioni di origine bancaria. “Le soluzioni per il fund-raising sono molteplici e si continuano a fare investimenti nella nuova imprenditorialità” dice Giorgio Righetti, direttore generale dell’Acri, organo di rappresentanza collettiva delle Casse di risparmio e delle Fondazioni di origine bancaria, realtà no profit nate all’inizio degli anni novanta. L’innovazione, dunque, pervade anche un settore che, per certi versi, potrebbe apparire lontano dal mondo del sociale, della cooperazione e del volontariato. Ma Righetti tiene a precisare un concetto: “Non dimentichiamo che in questo ambito la cosa più importante non è l’immediato ritorno economico: le parole chiave sono responsabilità, condivisione e impegno civile”.

Quali le leve d’innovazione per il terzo settore nel 2014?

Sta emergendo un numero sempre maggiore di soluzioni finanziarie innovative nel no profit, perché è un settore in fermento, che sta resistendo alla crisi e quindi attira attenzioni anche da parte di soggetti tecnici e di player provenienti dall’esterno. Da qui soluzioni come l’Impact Investment, un nuovo strumento per il fund-raising sociale.

Di cosa si tratta?

È un tool di provenienza anglosassone che privilegia l’investimento ad impatto sociale rispetto al granting tradizionale: non do i miei soldi a fondo perduto per un progetto sociale ma investo in modo da produrre risultati che abbiano un riflesso in questo settore. Altro strumento oggi molto diffuso è il crowdfunding, che in realtà ha radici antiche ed è stato ‘vestito di nuovo’: la collettività si mobilita in favore di un’iniziativa in cui crede e a cui vuole partecipare, ciascuno facendo la propria parte. Un ulteriore esempio: il pubblico, supportato dagli istituti bancari, finanzia investimenti privati tramite un cosiddetto premio, ovvero la restituzione di una parte del risparmio sociale che quell’investimento privato produce per la collettività. C’è poi l’housing sociale, tema da tempo caro al presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti: non è proprio una novità nel panorama attuale, in Italia se ne parla da anni, ma oggi si stanno realizzando concretamente abitazioni a metà tra l’edilizia popolare, ormai sostanzialmente ferma, e l’edilizia di mercato. Coniugano l’economicità degli affitti con servizi sociali mirati a creare condizioni di partecipazione e condivisione. Di recente hanno aperto i battenti due progetti di housing sociale, uno a Torino (alloggi temporanei per chi si trova momentaneamente in difficoltà economiche) e uno a Milano, che comprende invece alloggi stabili per famiglie in difficoltà.

Si può parlare di made in Italy sociale?

Sì, esiste una via italiana al sociale. All’estero rimangono sempre molto colpiti dal modo in cui gestiamo la cooperazione sociale. Per esempio nei Paesi anglosassoni, quando si fanno iniziative di questo tipo, l’elemento profit prevale sempre rispetto al no profit, invece in Italia non scimmiottiamo né subiamo certe categoria in voga in altri Paesi, che riducono tutto al profitto economico.

Il no profit è un settore importante per l’economia italiana, con più di 300mila organizzazioni, 950mila dipendenti, 4,8 milioni di volontari ed entrate pari al 4,5% del Pil (Prodotto interno lordo). Quanto spazio per giovani e start up?

Sul fronte delle start up sia il mondo delle cooperative sociali (Federsolidarietà, Lega cooperative) ma anche quello delle fondazioni e di tutti i grant makers del settore sono molti attenti al sostegno di nuove iniziative. Uno dei risultati è la nascita di organizzazioni e cooperative. Qualche anno fa le Fondazioni di origine bancaria hanno dato vita a un fondo di investimento, TT Ventures, che vede partecipare una decina di fondazioni: sua caratteristica peculiare è privilegiare investimenti in presenza di proprietà intellettuale e sostenere progetti ad alto contenuto tecnologico in joint-venture tra università e imprese, negli ambiti biomedicale, agroalimentare, energetico-ambientale e della scienza dei materiali.

Quali risultati ha ottenuto TTVenture?

A fine 2011 otto Fondazioni avevano investito circa 20 milioni di euro in varie iniziative tra cui BlueGreen , specializzata nell’identificazione e nella produzione di molecole bioattive per il trattamento di patologie neuro-degenerative e infiammatorie, Directa Plus, focalizzata su piattaforme nano tecnologiche con diverse applicazioni industriali o BiOnSil , spin-off dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca che opera nel settore biotecnologie (sviluppa kit per la diagnosi di farmacoresistenza dei tumori del colon). Inoltre le Fondazioni di origine bancaria investono parte del loro patrimonio in venture capital nel green field, cioè nella nascita di nuove realtà imprenditoriali. Nel primo caso, quello di TTVenture, è un’attività propria, perché il settore della ricerca e dello sviluppo è un settore normato per legge, quindi le Fondazioni sono abilitate ad investire. Nel secondo caso si tratta di un proprio investimento, quindi nella logica di un ritorno economico che comunque ha ricadute anche sul sociale. Inoltre di recente abbiamo creato una commissione interna all’Acri per sostenere le attività nell’ambito dell’artigianato artistico con l’obiettivo di stimolare il recupero delle tradizioni e l’occupazione dei giovani. È un patrimonio che, se non c’è formazione, va disperso. Sono già stati stretti accordi con soggetti pubblici e privati per questo progetto. È un’azione innovativa su un patrimonio già esistente.

Quindi grande spinta verso le nuove imprese?

Sì, ma anche attenzione al consolidamento dell’esistente. Quando parliamo di oltre 300mila organizzazioni è evidente che è un mondo molto frammentato. Inoltre alcune realtà sono estremamente fragili e stentano a tenersi in piedi. Specialmente nell’associazionismo ci sono realtà nate per un desiderio di protagonismo, pur legittimo, dei suoi fondatori più che per soddisfare bisogni già ampiamente soddisfatti da altri. In questo caso sono utili le Fondazioni di comunità, strumenti che possono fungere da intermediari tra chi vuol donare senza mettersi in gioco e chi già esiste e ha bisogno di queste risorse per portare avanti i propri programmi. La Fondazione di comunità raccoglie ed eroga.

E dal punto di vista strettamente tecnologico, come se la cavano le Fondazioni di origine bancaria?

Per la loro azione di grant making, le Fondazioni sono dotate tutte di strumenti online utili al monitoraggio dei progetti, al contatto con i beneficiari ecc. ecc. Inoltre tutte sono sul web, anche per obblighi di trasparenza. Ma attenzione a non innamorarsi dello strumento perdendo di vista la missione. Prima occorre capire quale strategia di comunicazione si vuole mettere in atto, poi quali mezzi usare. L’innovazione tecnica non può essere l’unica soluzione a problemi che sono anche e soprattutto di carattere culturale e strategico.

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