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Lavoro digitale, Ferri (EY): “Come e perché le aziende devono ‘trasformare’ i dipendenti”

Il mondo del lavoro sta cambiando: per non restare indietro le imprese dovranno affrontare la people transformation, mettendo le persone al centro. “Non è solo questione di nuove competenze, occorre un cambiamento culturale” dice Donato Ferri, Mediterranean People Advisory Services Leader. Se parla al Digital Summit a Capri

Pubblicato il 21 Set 2017

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“Quando si parla di imprese si parla di persone. Il mondo del lavoro sta cambiando, nascono nuove professioni e sono necessarie nuove competenze, perciò oggi le aziende si trovano a dover affrontare il tema della trasformazione delle loro persone, la people transformation, che riguarda le competenze digitali ma non solo. È un cambiamento soprattutto culturale, che va assolutamente intrapreso: perché, in caso contrario, c’è il rischio di rimanere fuori dal business”. A dirlo è Donato Ferri, Mediterranean People Advisory Services Leader di EY, che al Capri Digital Summit (4-6 ottobre) sarà moderatore di una tavola rotonda intitolata proprio “Il futuro delle competenze: visione ed esperienze di People transformation” dalla quale emergeranno alcune testimonianze: dall’esperienza di un’azienda come Sorgenia, raccontata dal Ceo Gianfilippo Mancini, a quella degli head hunter di EXS executive selection, illustrata dal Ceo Pasquale Natella. Ma ci sarà spazio anche per parlare della trasformazione del lavoro nel settore pubblico con il prefetto Roberto Sgalla, Direttore Centrale per la Polizia Stradale, Ferroviaria, delle Comunicazioni e per i Reparti Speciali della Polizia di Stato, e con il sottosegretario alla Pubblica Amministrazione Angelo Rughetti.  Perché processi come la formazione, la riqualificazione e dunque la trasformazione del personale interessano davvero tutti. Ma prima occorre capire quali nuove competenze serviranno per trovare lavoro.

Ci può indicare le più importanti?

Le dividerei in tre classi: competenze tecniche, manageriali e “di integrazione”. Le competenze tecniche e tecnologiche sono quelle legate al digitale, le cosiddette Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), ma a mio parere sarà più rilevante la trasformazione nelle competenze manageriali. Il manager non è più quello che trasferisce una conoscenza a un gruppo di persone allo scopo di perseguire un obiettivo comune, ma è colui che spiega perché e come bisogna agire, ovvero che dà il significato di quello che si sta facendo. Tutto ciò comporta attitudine ai rapporti personali e alla comunicazione che ad oggi non sono generalmente tipiche dei manager. Si parla della necessità di possedere soft skills come flessibilità e creatività, ma in questo caso potremmo parlare di meaning skills, capacità di dare significato. La terza serie di competenze servirà a mettere a sistema quelle di base. Mi spiego: posso essere un esperto di big data, ma se non ho skills di cognitive computing non so come muovermi. Occorrerà, insomma, essere capaci di mettere insieme i dati in azienda o di far interagire i robot con gli umani, ovvero competenze di integrazione, coordinamento e messa a sistema. Ecco, è l’incrocio di queste tre classi di competenze – tecnologiche, manageriali e di integrazione – che determinerà quello di cui le aziende avranno bisogno. Per questo sono necessari i processi di people transformation.

Come funzionano questi processi e che cosa devono fare le imprese per avviarli?

“People trasformation”, per un’azienda, significa avere l’elemento people al centro delle decisioni che vengono prese. Per questo è necessario far uscire la dimensione people dall’HR e farla arrivare sul tavolo dell’amministratore delegato. L’azienda non è statica: il recruitment e la valutazione dei dipendenti, finora processi tipicamente transazionali, devono diventare digitali, continui, costanti. In concreto questo significa, per esempio, fare formazione continua al personale e avere costanti feedback sulle attività. Non è un’operazione banale dal punto di vista culturale. Forse l’unico settore in cui si è innovato poco negli ultimi 30 o 40 anni sono state proprio le Risorse Umane. Si, è vero, è emerso l’HRTech e si stanno usando gli analytics, ma sono ‘vagiti’: la strumentazione core è quella di alcuni decenni fa.

Perché la people transformation è necessaria alle imprese?

Perché sono emersi fenomeni che prima non c’erano. Un tempo il problema numero uno era l’assenteismo. Oggi è un altro: secondo alcune stime il 63% dei dipendenti porta all’azienda un contributo nullo o molto più basso di quello che la società si attendeva, con performance al di sotto della media attesa.

Tutte persone da lasciare fuori?

Sarebbe l’errore più grande. Piuttosto le aziende devono rendersi conto che si trovano a gestire una forza lavoro con esigenze diverse rispetto al passato: oggi ci sono i Millennials, c’è la gig economy, tutti elementi che stanno cambiando i fondamentali del lavoro. C’è anche il job crafting: individui che vogliono ridisegnare il proprio lavoro in autonomia, secondo tempi e modi scelti da loro stessi. Ci sono fenomeni che prima non c’erano. Per esempio sta nascendo il problema di come configurare la propria identità in base al fatto che si lavora per una determinata azienda. E non è solo una questione generazionale. Le pressioni più forti per la trasformazione di skills e processi arrivano dal cambiamento delle tecnologie e dei modelli di business. È chiaro che è un tema culturale.

Quanto è complicato e costoso realizzare questi processi?

Il costo può essere relativamente basso o vicino allo zero. Noi abbiamo visto società e persone che hanno ottenuto tanto con poca spesa, ma c’è anche chi questa operazione non riesce a farla. Non è costosa in senso economico, lo è in quanto cambiamento di un mindset culturale. Bisogna prevedere un minimo di ricambio manageriale e decidere la ricollocazione del budget per determinate attività, budget che nel frattempo si era andato prosciugando. In particolare occorre mettere in agenda la formazione, il knowledge management, i modelli di competenze e in generale tutti gli investimenti sul people. In questo senso nel Paese si vedono segnali positivi: penso alla formazione agevolata prevista dal piano del governo per l’Industria 4.0 o agli investimenti per la scuola pubblica, in base ai quali sono stati destinati 300 milioni di euro alla formazione.

Perché un’azienda dovrebbe fare people transformation?

Perché è inevitabile e c’è il rischio di rimanere fuori dalle partite di business. Dai dati emerge che le società più performanti degli ultimi 10 anni hanno instaurato una struttura di rapporti diversa rispetto al passato. Bisogna chiedersi come deve cambiare il mercato del lavoro e anche come deve cambiare il rapporto tra Stato e persone che non lavorano, un problema si sta già ponendo.

C’è differenza tra imprese e PA nella gestione della trasformazione?

Finora, con il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, si poneva solo un problema di riqualificazione di professioni esistenti. Ora si sta riaprendo il reclutamento. Ma non si tratta soltanto di tornare ad assumere: la PA deve capire qual è la strada del futuro. L’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid) ha presentato un piano triennale per la digitalizzazione della PA. Al suo interno c’è un riferimento alla gestione del cambiamento. Ecco, questa parola deve diventare azione concreta. Occorre rimettere in piedi i modelli operativi, riallineare le competenze, riqualificare il personale esistente. La PA non può aspettare un ciclo generazionale di 12 o 13 anni per cambiare. Per quanto riguarda la differenza con il settore privato, sicuramente la pubblica amministrazione si ritrova con un’area people nella quale, negli ultimi anni, sono stati fatti pochi interventi e per lo più orientati al taglio di costi. Ma proprio a causa dei ritardi accumulati l’esigenza di innovare è ancora più forte.

Le piccole e medie imprese sono avvantaggiate o svantaggiate in questo processo?

Le pmi possono fare molte cose attraverso la people transformation. Per esempio diverse pmi puntano sull’internazionalizzazione, ma per attuarla in modo efficace serve una cultura che passi anche da interventi sulle competenze. Spesso le pmi hanno una forte competenza di prodotto, meno di marketing e digitale, quindi hanno difficoltà a trovare canali di sbocco. Va detto che, essendo legate ad aziende più grandi, ricadono nella stessa filiera. Oggi il rischio più grosso per le grandi aziende è occuparsi solo di se stesse. Dovrebbero invece portare la trasformazione anche nelle imprese più piccole che rientrano nella loro filiera. Le più illuminate lo stanno già facendo attraverso contratti di welfare o formazione. In questo modo eviteranno un knowledge divide che finirebbe per svantaggiare tutti.

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