Tre possibili equivoci sulle imprese della Gig Economy

È vero che fanno leva sulle risorse di altri, ma quelle di successo, come Uber, non sono “finanziariamente leggere”. E il mattone ha ancora un valore simbolico elevato, come confermano gli headquarter di Apple, Google e Amazon. L’autore di “Strategia” puntualizza alcune affermazione contenute nel blog Three-CommaClub

Pubblicato il 27 Feb 2017

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Caro Direttore, vorrei fare alcuni commenti sull’articolo “Anche le biotecnologie vanno verso la Gig Economy” pubblicato su EconomyUp, che dice cose sicuramente vere ma che rischia di generare più di un equivoco.

Il primo possibile equivoco: Le imprese della Gig Economy sono “finanziariamente leggere” perché fanno leva sulle risorse di terzi.

È vero che fanno leva sulle risorse di terzi, ma non sono sicuramente (almeno quelle di successo) “finanziariamente leggere”. Le loro esigenze finanziarie sono anzi spesso estremamente elevate, come è immediato vedere consultando su WSJ la lista dei cosiddetti “unicorni”, delle startup cioè che non si sono ancora quotate in Borsa, ma che sono riuscite a farsi dare complessivamente almeno un miliardo di dollari, sotto forma di aumenti di capitale, da finanziatori privati: fondi di venture capital, fondi sovrani (quali quello dell’Arabia Saudita), singoli individui che dispongono di capitali consistenti.

Sono ben 154 le startup presenti in tale lista, con la sola Snap in uscita perché in fase di IPO. Proprio Uber è al primo posto, avendo raccolto 12,9 miliardi di dollari. Didi Chuxing, la “Uber cinese” che ha scacciato Uber dalla Cina, è seconda, con una raccolta di 8,6 miliardi. Airbnb, l’altra grande esponente della Gig Economy sempre citata insieme a Uber, è quarta, con una raccolta di 3,1 miliardi.

È vero che queste imprese – come afferma l’articolo – mirano a minimizzare il numero di dipendenti (anche se Uber ha ad esempio in corso negli US diverse “class action” degli autisti che vogliono l’assunzione come tali), ma è altresì vero che esse devono investire cifre estremamente ingenti per il continuo miglioramento delle prestazioni delle loro piattaforme, ma soprattutto per la conquista di nuove fette di mercato.

Il secondo possibile equivoco: è facile per le imprese fare soldi facendo leva sulle risorse di terzi.

È facile provarci, molto più difficile riuscirci. Occorre avere una “business idea” forte, occorre saperla implementare, occorre “dare qualcosa in cambio” se si vuole che gli altri rendano disponibili le loro risorse.

Il terzo possibile equivoco: il mattone non interessa più.

Il mattone non è sicuramente fondamentale per le imprese che come H-Farm devono crescere, ma ha tuttora un valore simbolico elevatissimo per le imprese che hanno raggiunto il successo. Tre esempi recenti di headquarters grandiosi: Apple, Alphabet-Google e Amazon. È di pochi giorni fa la notizia che l’Apple Park – la nuova sede centrale della società (che ospiterà 12mila dipendenti) concepita da Steve Jobs e progettata da Foster – sarà tra poco operativa. La superficie occupata è di oltre 700mila mq, con “aree verdi che offriranno ai dipendenti oltre tre chilometri di sentieri nel parco per correre e camminare, oltre a un frutteto, un prato e un laghetto nel terreno situato al centro della struttura circolare”. Il costo complessivo (non comunicato da Apple) supera secondo WSJ i 3 miliardi di dollari.

* Umberto Bertelè, professore emerito di Strategia e sistemi al Politecnico di Milano, tra i fondatori del corso di studi di Ingegneria Gestionale,
chairman degli Osservatori Digital Innovation e di Digital360, è autore del libro Strategia (Egea)

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