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Open innovation, l’AI è diventata il vero game changer: la lettura di Stefano Mainetti



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Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano, offre una lettura approfondita dello stato dell’open innovation in Italia: come evolvono le “fonti di ispirazione” (società di consulenza e startup) e come l’AI segna un “salto impressionante” nella capacità di ispirare nuovi modelli e processi

Pubblicato il 3 dic 2025



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La pressione a trasformare i processi di innovazione in leve più concrete e misurabili sta ridefinendo le priorità di molte imprese italiane. La ricerca di risultati tangibili, unita alla necessità di mantenere collaborazioni di ecosistema, rende l’open innovation un terreno complesso da gestire. Durante un intervento del 2 dicembre 2025 nell’ambito delle attività degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Startup Thinking e docente al Politecnico di Milano, ha analizzato in dettaglio come sta evolvendo questo modello nelle grandi organizzazioni e quali rischi emergono dall’attuale fase di transizione.

Innovazione più concreta, ma l’open innovation richiede tempo e relazioni

Secondo Mainetti, uno dei segnali più evidenti degli ultimi anni è la maggiore attenzione delle aziende verso un’innovazione “concreta”. Lo si nota, ha spiegato, anche dalle prime testimonianze condivise durante la giornata, dove diverse imprese hanno riportato un avvicinamento delle attività innovative agli obiettivi di business. Tuttavia, questa esigenza di immediatezza si scontra con la natura dell’open innovation, che richiede tempo, relazioni e investimenti sistemici. Come osserva Mainetti, quando l’innovazione “diventa aperta”, emergono sfide aggiuntive perché non può produrre ritorni immediati e richiede azioni di ecosistema basate su collaborazione, fiducia e continuità.

L’equilibrio tra concretezza e apertura, quindi, rappresenta una soglia critica: se da un lato le imprese cercano risultati più rapidi, dall’altro l’open innovation si sviluppa su tempi più lunghi e dinamiche meno controllabili.

Le fonti di ispirazione: startup in crescita, AI come vero game changer

Come sono cambiate le “fonti” dal 2022 al 2025

Una parte importante dell’intervento è dedicata all’evoluzione delle fonti da cui le imprese traggono stimoli per innovare. Basandosi sui dati raccolti negli ultimi anni, Mainetti mostra come la gerarchia delle fonti abbia subito modifiche significative. Nel 2022, le società di consulenza emergevano come principale riferimento per l’innovazione, mentre le startup occupavano posizioni più basse ma in crescita. Nel 2025, le previsioni di un calo delle società di consulenza non si realizzano: “ritornano in prima posizione”, afferma Mainetti, mentre le startup continuano a rafforzarsi come fonte di stimoli.

Accanto a queste due categorie, università e centri di ricerca mantengono un ruolo rilevante. Tuttavia, il vero elemento di discontinuità è rappresentato dall’Intelligenza Artificiale, in particolare generativa, definita un “salto impressionante” nella capacità di ispirare nuovi modelli, prodotti e processi. L’AI si posiziona, infatti, come uno dei principali game changer sia per l’innovazione aziendale sia per l’open innovation, con un impatto trasversale sulla consulenza, sul modo di sviluppare idee e sulla gestione delle collaborazioni esterne.

L’AI ridisegna la consulenza e la pratica dell’innovazione

Mainetti osserva come l’adozione dell’AI da parte delle società di consulenza stia modificando la loro offerta di innovazione alle imprese. La capacità di utilizzare sistemi avanzati consente loro di proporre soluzioni nuove, aumentare la produttività e reinterpretare ruoli consolidati. Allo stesso modo, anche chi opera direttamente nei processi di innovazione sfrutta queste tecnologie per velocizzare l’analisi, migliorare il processo decisionale e aumentare la capacità di scouting. Mainetti cita il caso di Paolo Magni del Gruppo Enercom che, grazie a strumenti di AI, ha imparato a “essere produttivo anche sui temi dell’innovazione”.

Questa trasformazione contribuisce a spiegare perché l’AI, pur essendo un fenomeno che presenta rischi di hype e potenziali disillusioni, viene oggi percepita come fonte strutturale di innovazione.

Un plateau tattico nell’utilizzo degli strumenti di open innovation

Stabilità apparente, riduzione dell’intensità

Analizzando i dati sull’adozione dell’open innovation, Mainetti parla di una “stabilità” che, letta attentamente, indica l’esistenza di un plateau tattico. L’86% delle aziende monitorate utilizza strumenti di open innovation, sia inbound — per assorbire l’innovazione esterna — sia outbound, per portare l’innovazione verso l’esterno. Tuttavia, tra il 2023 e il 2025 si osserva una “leggera contrazione” nell’uso di questi strumenti, segnale che l’intensità con cui vengono adottati si sta riducendo.

Questa dinamica si collega alla tendenza, evidenziata anche da altri interventi della giornata, verso una gestione più frugale dei costi e degli investimenti. In un contesto in cui il business as usual è prioritario, strumenti come corporate venture capital, programmi di accelerazione, co-sviluppo con startup o iniziative outbound più complesse possono risultare più difficili da sostenere.

Collaborare con le startup: un lavoro ad alta intensità e basso tasso di conversione

Da 100 startup viste a una collaborazione attiva

Uno degli elementi più significativi dell’intervento riguarda il funnel di collaborazione tra aziende e startup. Mainetti sottolinea come oltre il 60% delle imprese che adottano open innovation lavori con startup, un dato stabile negli anni. Tuttavia, la stabilità nasconde un problema di intensità e ritorno degli investimenti.

Per costruire una singola collaborazione, spiega Mainetti, è necessario analizzare e incontrare numerose startup: “solo una su 10” tra quelle viste arriva a un Proof of Concept, e “solo una su tre” di queste diventa un progetto di collaborazione vera e propria. L’interpretazione proposta è chiara: “per collaborare con una abbiamo bisogno di un 99% di attività che non porta al risultato”.

Questo dato rende evidente quanto l’open innovation richieda tempo, risorse e capacità di valutazione continua, e come in contesti di cautela economica possa essere percepita come attività a basso ritorno immediato. Ma è proprio questo rischio, suggerisce Mainetti, a rendere fondamentale non interrompere i percorsi già avviati.

Il ruolo del top management: la differenza tra proattività e indifferenza

Dove il vertice crede nell’open innovation, cresce l’outbound

L’Osservatorio ha analizzato anche l’atteggiamento dei vertici aziendali verso l’open innovation. Mainetti evidenzia che solo il 19% del top management è fortemente proattivo, mentre un altro 33% lo è in modo moderato. La metà delle aziende risulta invece passiva o indifferente.

Quando però il vertice è realmente ingaggiato, emergono differenze nette. Tra le imprese con top management proattivo, il 73% ha avviato iniziative di open innovation outbound, cioè quelle più strategiche e ad “alta magnitudo”: spin-off, nuovi servizi, corporate venture, piattaforme di innovazione. Nelle aziende meno coinvolte, invece, l’adozione dell’open innovation è molto più limitata.

Mainetti sottolinea che è proprio nelle iniziative outbound che risiede il potenziale più elevato per sviluppare nuove capacità e nuovi mercati, motivo per cui la loro contrazione in questa fase di cautela rappresenta un segnale da monitorare.

Un momento delicato: tra ritorni di lungo periodo e rischio di soffocare l’ecosistema

Nella parte conclusiva dell’intervento, Mainetti parla apertamente di “momento di stallo tattico”. La ricerca di ritorni immediati rischia di penalizzare le iniziative che generano valore nel lungo periodo, come l’open innovation. Misurare queste attività solo con indicatori tradizionali, in particolare il ritorno sul fatturato, è secondo Mainetti una distorsione, perché “i ritorni sono molto più nel lungo termine” e non possono essere valutati come le innovazioni incrementali.L’avvertimento finale riguarda il rischio di disperdere un patrimonio costruito in “15 anni” di osservazione e pratica dell’open innovation in Italia. Un patrimonio fatto di competenze, relazioni e strumenti che, se bloccato o ridotto eccessivamente, potrebbe far perdere al sistema un potenziale reale di innovazione proprio mentre tecnologie come l’AI stanno ridefinendo gli equilibri competitivi.

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