Corsi e ricorsi
Open innovation, chi si ferma davanti al primo insuccesso è perduto
All’inizio del 2000 la “ritirata” dal digitale dopo la bolla Internet condannò le imprese e l’Italia all’attuale ritardo. Non possiamo permetterci di ripetere lo stesso errore adesso. I processi di rinnovamento sono dolorosi, per superarli serve una cultura aziendale solida e condivisa
di Andrea Rangone, presidente Digital360
Pubblicato il 16 Set 2016

Nel marzo dell’anno 2000 al Nasdaq crollarono le quotazioni delle Internet company che erano cresciute a ritmi travolgenti a partire dal 1997. Fu uno choc che spinse a reinterpreare i primi passi della nuova economia fondata sulle tecnologie digitale come un bluff. E diede cinica soddisfazione a chi aveva accolto idee, talenti e investimenti con sufficienza, mettendosi in attesa sulla riva del fiume per vedere passare i cadaveri. Erano quelli che difendevano le ragioni del business, i budget e la legacy. Gli errori furono tanti ma il loro fu il più grave, soprattutto in Italia.
È inevitabile ripensare a quegli anni che sembrano così lontani quando oggi capita di incontrare top manager che trasmettono attenta indifferenza verso l’open innovation. Li senti parlare e capisci che non sono convinti alfieri della trasformazione necessaria e inevitabile, che trasferiscono all’interno dei loro team e delle aziende messaggi incerti e confusi.
All’inizio del secolo, soprattutto in Italia, si confuse la bolla finanziaria con il valore economico e industriale dell’innovazione. Chi si bruciò le dita ritirò immediatamente le mani, condannando le imprese e il Paese al ritardo che ancora frena tutto il sistema. Perché mentre da noi ci si leccava le (piccole) ferite e qualche sciagurato diceva “ve l’avevo detto io”, negli Stati Uniti si lavorava per il consolidamente e la nascita dei GAFA (Google-Amazon-Facebook-Apple).

Non si può e non si deve tacere il fatto che i processi di rinnovamento sono anche dolorosi, passano da insuccessi e fallimenti. Superarli è possibile solo se c’è una cultura aziendale solida e condivisa, che preveda e sappia metabolizzare anche i fallimenti. Ecco perché i manager che hanno paura di sbagliare e quelli che godono degli errori degli altri non possono fare vera innovazione.
Sarebbe un disastro per l’Italia se con l’open innovation si ripetesse lo schema della New Economy d’inizio secolo: facili entusiasmi, errori (inevitabili), ritirata irrazionale. Perché questa volta non si produrrebbe un ritardo per il Paese, ma il suo definitivo declino come protagonista della scena economica internazionale.
* Andrea Rangone è CEO di Digital360