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Intervista al premio Nobel Philippe Aghion: Trump frena l’innovazione, l’Europa deve essere più attraente



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“L’AI rilancia la distruzione creatrice” dice a EconomyUp il premio Nobel dell’Economia 2025, che sulla relazione fra le Big Tech e la Casa Bianca sostiene: ciò che sta facendo Trump non fa bene alla competizione, intorno a lui c’è “capitalismo clientelare”. Il rapporto con Mario Draghi

Pubblicato il 14 nov 2025

Ivan Ortenzi

Chief Innovation Evangelist, Bip



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Philippe Aghion

Avere una conversazione con il premio Nobel Philppe Aghion è una di quelle occasioni speciali che ti ricordano perché fai questo mestiere. Io parlo di innovazione ogni giorno. Lo faccio nei board, nelle aule, nei podcast sottolineando la dipendenza tra tecnologia e cultura, tra le idee e l’esecuzione, tra le dinamiche di mercato e le scelte coraggiose.

Grazie a Giovanni Iozzia e all’introduzione di Patrizia Foti, ho avuto il privilegio di sedermi con chi queste cose non solo le ha previste: le ha spiegate, misurate e usate per cambiare l’agenda dei paesi.

Philippe Aghion è la voce più lucida della crescita “schumpeteriana”: l’uomo che ha messo in equazione la distruzione creatrice, che ha disegnato la famosa U rovesciata fra competizione e innovazione, che ricorda ai leader che senza mercato e regole giuste l’innovazione si addormenta. Uno dei tre studiosi che sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia nel 2025.

Per me, che provoco aziende e istituzioni a trasformare la retorica in vantaggio competitivo, è un onore vero. Sono felice di questa conversazione perché è il punto d’incontro fra ricerca, presa di decisione e pratica dell’innovazione. Comincia così: presentandomi e raccontando le mie esperienze presso l’UniCal e il Politecnico di Bari. Scopro che il Professor Aghion è stato a Bari nel 2017 per il simposio sulla crescita in occasione del G7 in quel periodo era professore di economia ad Harvard e mi racconta dell’esperienza fatta su un treno speciale che si inerpicava sulle colline. Io rido: “Professore, forse era la nostra Space Valley…”.

Lui sorride, e in un attimo passiamo dal cerimoniale al tono giusto: due persone appassionate che parlano di innovazione e di economia. Ci si scambia aneddoti di campus e il ghiaccio si scioglie. Da quel binario informale parte la conversazione vera: l’IA, la ricerca, la concorrenza e l’innovazione.

Professore, partiamo dalla domanda che inquieta e galvanizza i board: l’IA che stiamo vedendo è hype ben confezionato o vera distruzione creatrice?

La distruzione creatrice è sempre all’opera; con l’IA accelera. Lo vediamo già: alcune mansioni scompaiono mentre se ne creano di nuove e su questa creazione di lavoro esistono evidenze. Il punto non è fermare il processo, ma accompagnarlo: permettere ai lavoratori di passare dai vecchi ai nuovi mestieri e adeguare il mercato del lavoro.

In sintesi, l’IA rilancia la distruzione creatrice; sta a noi trasformarla in occupazione e crescita

La seconda domanda è scomoda: l’IA è un moltiplicatore di creatività o un anestetico cognitivo? In azienda vedo entrambe le traiettorie: libera tempo e abilita combinazioni di idee che prima non erano a portata; ma introdotta male atrofizza.

Può essere entrambe le cose. Dipende da come viene usata e da come viene insegnata. Da un lato, l’IA fa risparmiare tempo sui compiti noiosi e puoi dedicare più tempo ai compiti creativi. Dall’altro, un altro grande aspetto è che l’IA rende più facile avere nuove idee. Rende più facile ricombinare idee vecchie e trasformarle in nuove. Perché, vede, con l’IA puoi fare molte più ricombinazioni.

E quindi penso che l’IA migliorerà il processo d’innovazione

In entrambi i sensi, penso che l’IA dovrebbe stimolare la creatività; ma, d’altra parte, se si è esposti all’IA troppo presto nella vita, può capitare di diventare pigri e incapaci di ragionare da soli. Quindi tutto dipende da come la utilizziamo. L’IA può renderci più pigri e meno innovativi ma può anche aiutarci a risparmiare sui compiti noiosi e a dedicare più tempo a quelli interessanti e creativi, e rendere più facile innovare e trovare nuove idee. Il verdetto è ancora aperto: le istituzioni, la scuola, l’università hanno la responsabilità di come l’IA viene introdotta nel sistema rendendola più o meno favorevole alla creatività.

Sono molto curioso su questo tema. Sono stato invitato da una business school qui a Milano a partecipare a un dibattito su come l’IA stia avendo un impatto sul ruolo dei professori. Qual è la sua opinione su questo scenario?

Non ho una risposta netta. So che alcuni professori usano l’IA per avere un monitoraggio migliore degli studenti. Per esempio, nelle scuole superiori puoi avere studenti rimasti indietro, e con l’IA possono recuperare più facilmente, perché possono esercitarsi a casa molto meglio. Conosco una professoressa a Pau, una città nel sud della Francia, che usa l’IA proprio per ottenere un monitoraggio molto migliore dei singoli studenti. Questo è un uso virtuoso dell’IA. Dall’altro lato può succedere che con l’IA le persone smettano di imparare il calcolo di base perché pensano che l’IA lo faccia per loro. Smettano di imparare come dimostrare un teorema. Smettano di comprare libri e leggere i libri. Questo sarebbe, naturalmente, un effetto collaterale negativo dell’IA. Quindi, ancora una volta, tutto dipende da come l’IA viene introdotta e usata

Vorrei rendere omaggio al modello a U rovesciata che insegna che l’effetto pro-innovazione della competizione dipende da dove un sistema si colloca. Vorrei chiedere la sua opinione su come applicare oggi il modello a U rovesciata alla dinamica tra apertura e competitività dei modelli macroeconomici nel mondo, pensando agli USA, all’Europa, alla Cina: qual è oggi lo status della competizione?

La U rovesciata ti dice che se sei nel business, in particolare dell’innovazione di frontiera, la concorrenza è fondamentale. Se sei in fase di catching-up (in recupero verso la frontiera dell’innovazione), non è un grosso problema non avere molta concorrenza. Puoi comunque competere sul mercato mondiale. Ma se sei nel business dell’innovazione di frontiera, lì la concorrenza è fondamentale. Perché innovi per sfuggire ai concorrenti. Per le imprese di frontiera l’innovazione trae molto beneficio dalla concorrenza.

Ciò che dice la U rovesciata è che hai leader e inseguitori. Hai le imprese alla frontiera e quelle che non lo sono. Per le imprese alla frontiera, la concorrenza potenzia la crescita basata sull’innovazione

La concorrenza è un motore di crescita basata sull’innovazione. Per le imprese che restano indietro, meno. Ma quando sei un Paese più sviluppato, la concorrenza diventa sempre più cruciale, diventa il motore chiave della crescita. Perché davvero hai quell’effetto di “fuga dalla concorrenza” che diventa davvero preminente.

Guardando all’economia mondiale, se credi nella concorrenza, allora credi nel libero scambio, perché il libero scambio non significa solo mercati più ampi per gli innovatori, il che è positivo per l’innovazione, significa anche concorrenza. Ecco perché tutto ciò che ostacola il mercato aperto, il mercato mondiale, ovviamente ostacola la concorrenza, e quindi non è un bene.

Dunque, oggi quello che fa Trump nell’ottica della competizione e della dinamica globale, non penso sia ottimo. Voglio dire, Trump implementa questo tipo di politiche protezioniste perché vuole soddisfare un elettorato che ha sofferto molto per la globalizzazione. E hanno sofferto molto non per la globalizzazione in sé, ma perché non era accompagnata da un adeguato sistema sociale.

In Danimarca non c’è alcun problema con la globalizzazione, perché hanno una buona protezione del mercato del lavoro. Hanno un buon sistema di flexicurity. Se perdi il lavoro in Danimarca, per due anni ricevi un sussidio di disoccupazione molto generoso, e poi vieni riqualificato e preparato per un nuovo lavoro. Quindi non è un grosso problema avere la globalizzazione, perché i lavoratori sono protetti.

Negli Stati Uniti, nulla di tutto ciò esisteva. E di conseguenza molte persone hanno sofferto per la globalizzazione. E allora una risposta molto populista è stata dire: chiudiamo i confini, applichiamo politiche protezioniste. Ma non è il modo migliore. Il modo migliore per rispondere alla concorrenza estera è innovare di più. Il modo migliore per rispondere alla concorrenza è innovare tu stesso. Non mettere barriere. La Cina è uno stimolo, l’Europa dovrebbe esserlo.

Alla frontiera la concorrenza è benzina: si innova per sfuggire ai rivali (Escape competition). Se sei in matching-up puoi crescere anche con meno pressione, ma nelle economie mature, senza concorrenza, l’innovazione si addormenta.

Da qui discende un principio semplice: se credi nell’innovazione, credi nel libero scambio. I muri proteggono rendite, non la crescita

La globalizzazione ha lasciato ferite dove mancavano reti di sicurezza. Ma la risposta non sono i dazi; è la flexicurity ovvero la tutela della transizione tra due diversi lavori, sono sussidi di sicurezza e riqualificazione strutturata. Questo è ciò che consente di difendere l’apertura senza scaricare il costo sul lavoratore.

Allora mi permetta una domanda “pepata”. Francamente, cosa pensa quando vede tutti i tycoon del digitale e della tecnologia seduti attorno al presidente Trump? È l’inizio di un capitalismo “computabile” o stiamo riscoprendo la versione 2.0 del “crony capitalism” (rendite oggi per recinti domani)?

Si deve temere il capitalismo clientelare. Vede, il modello schumpeteriano che abbiamo formalizzato con Peter Howitt e che abbiamo portato avanti, anche Joel Mokyr lo spiega con dati storici (gli altri vincitori del premio Nobel, ndr), è proprio questa visione: le economie a crescita rapida sono quelle in cui continuamente entrano nuovi talenti che possono creare imprese e, se sono bravi, possono espandersi. Però bisogna assicurarsi che, mentre si espandono, non mettano barriere ai nuovi talenti. Dando incentivi a crescere e prosperare attraverso l’innovazione si possono ottenere rendite ed espandere imprese e tutto l’ecosistema. Ma bisogna assicurarsi che, una volta che ti sei espanso, una volta che hai ottenuto rendite, non userai quelle rendite per impedire le innovazioni successive.
La mia preoccupazione riguardo gli Stati Uniti è che servono imprese che innovano, ma serve anche un governo che applichi politiche di concorrenza. E il problema è che gli incumbent (aziende dominanti) possono colludere con il governo per evitare che tali politiche vengano implementate, per ritardarne l’attuazione.

Ed ecco perché la società civile è così importante: perché la società civile è lì per denunciare la corruzione. La corruzione non è altro che l’azione delle imprese esistenti che fanno pressione sui governi per farsi mettere barriere contro i nuovi entranti.

Quindi temo che negli USA ci sia collusione tra interessi consolidati e il governo Trump, e che ci sia una limitazione della società civile, delle libertà civili, della libertà e della democrazia; tutto ciò, in effetti, è una cattiva notizia per i nuovi entranti. Perché tutto questo favorisce il capitalismo clientelare: un capitalismo in cui gli incumbent colludono con il governo per impedire nuove innovazioni

Alla luce di questa dinamica mi preme parlare di Europa. Il cliché dice: “l’Europa rincorre” e “l’Europa è un perenne new comer” nella corsa all’IA. Qual è, per lei, l’agenda concreta per tornare protagonisti?

Allora, l’Europa è un “newcomer”, ma è molto interessante perché la rivoluzione dell’IA si è basata in larga misura su articoli di ricerca e molti di questi sono stati fatti in Europa. In Italia avete ottimi matematici e ingegneri, e così anche in Francia. Abbiamo Yann LeCun, per esempio (responsabile della ricerca AI di Meta, pioniere nella ricerca sul deep learning, che secondo il Financial Times starebbe per lasciare la società di Zuckerberg per fondare una sua startup, ndr). Yann LeCun è stato un pilastro della rivoluzione dell’IA. Ho co-presieduto una commissione sull’IA e abbiamo consegnato un rapporto sull’IA a Macron l’anno scorso. E Yann LeCun era nella mia commissione. Ed è francese, ancora meglio è europeo.

Il punto è che dovremmo creare un ambiente più attraente perché tornino i ricercatori di questo livello. Molti di loro sono emigrati negli USA e oggi non sono così felici con Trump. Molti sarebbero molto disponibili a tornare in Europa, a patto che ricevano buone condizioni di lavoro, buoni salari, buoni finanziamenti alla ricerca

Dobbiamo offrire questi elementi per fare in modo che queste persone tornino. Yann LeCun dice che i LLM sono già parte del passato e che le evoluzioni tecnologiche ci porteranno strumenti migliori degli LLM. Lui è un pioniere in questo campo di ricerca e vorrei che fosse in Europa. Perché no? E qui arriviamo a Draghi.

Mi ha anticipato! Avevo proprio una domanda sul “Rapporto Draghi”.

Io e Draghi lavoriamo insieme.

Professore il rapporto è veramente l’ultimo appello all’Europa?

Suona in modo preoccupante ma realistico: l’ultimo appello europeo. Dobbiamo costruire un nuovo ambiente per essere attrattivi, probabilmente non solo per attrarre denaro, ma per attrarre competenze e ricercatori. Sono ottimista su questo, perché l’Europa ha valori: libertà e apertura. È adesso in Europa molto più che negli USA. I ricercatori amano molto la libertà e la democrazia.

L’altro aspetto è il modello sociale. Lungi dall’essere perfetto ma il nostro modello sociale europeo è molto meglio del modello sociale statunitense. E poi l’impegno per l’ambiente e l’innovazione verde: abbiamo fatto molto di più in Europa che negli USA. Quindi penso che questi valori siano molto forti e abbiano un grande potere attrattivo. E credo che, se sapremo mettere a frutto questi valori e trarre vantaggio dalla forza che abbiamo grazie a questi valori, potremo davvero attrarre buoni ricercatori ed essere pionieri del prossimo passo della rivoluzione post-LLM. Ma per fare questo serve che il rapporto Draghi venga non incorniciato ma implementato.

In Europa serve un vero mercato unico se non per tutto almeno per l’high-tech per avere grandi mercati potenziali per gli innovatori e grande concorrenza

Quando hai un mercato unico, hai davvero concorrenza e davvero opportunità per gli innovatori di successo. In secondo luogo, serve un buon ecosistema finanziario per l’innovazione: venture capital, investitori istituzionali.

Terzo servono buone politiche pubbliche sia per finanziare la ricerca, per finanziare i laboratori nel lungo periodo, l’ERC (Consiglio Europeo della Ricerca ndr) è uno strumento molto positivo ma dovremmo estenderlo e ampliarlo, sia per la politica industriale, dovremmo avere una politica industriale favorevole alla concorrenza. Finora, in Europa, in nome della politica di concorrenza siamo stati molto contrari a politiche settoriali specifiche e verticali. Questo dobbiamo cambiarlo, specializzarci in settori come difesa, IA, salute o transizione verde che rappresentano scelte per il futuro. Per questo il rapporto Draghi è importante, perché traccia la linea per creare un ambiente molto favorevole all’innovazione in Europa. Noi facciamo molta ricerca di base in Europa, ma la ricerca di base in Europa non si traduce abbastanza in innovazioni dirompenti fatte in Europa.

Io dedico gran parte del mio sforzo accademico a spiegare la differenza tra innovazione e corporate innovation. Che sono totalmente differenti.

Esatto, dobbiamo fare ricerca e poi dobbiamo applicarla secondo le regole del business, non solo dal lato “innovazione” del pensiero.

Ha citato l’innovazione verde, dal 10 al 21 novembre c’è la COP30 in Brasile e torna di estrema attualità il rapporto tra innovazione e sostenibilità, parliamo di utopia o di reale strategia?

Penso che siamo con le spalle al muro, quindi dobbiamo farlo. Non abbiamo scelta per sopravvivere. Sappiamo che quando siamo messi con le spalle al muro magicamente facciamo le cose: come con il COVID e la fantastica soluzione dei vaccini a mRNA.

Sui temi della sostenibilità ambientale la mia impressione è che l’Europa finora abbia adottato un approccio punitivo all’ambiente: carbon tax, prezzo del carbonio

Il caso particolarmente sintomatico è stato il movimento dei “Gilet gialli” in Francia.

Vede, abbiamo imposto grandi aumenti del prezzo del gasolio a persone che non avevano alternative: usare un’auto diesel per andare al lavoro o per accompagnare i figli a scuola. Capisce che cosa intendo? Non avevano alternative. Erano ostaggio di quegli aumenti. Questo era inaccettabile, mancava la politica industriale. Occorreva, allo stesso tempo, una politica industriale per sviluppare, costruire treni, tram, infrastrutture, alternative all’auto diesel o a benzina. Non si può avere solo la punizione, il bastone: servono le carote. Ed ecco perché serve una politica industriale per produrre le fonti di energia alternative, per produrre sistemi di trasporto migliori, per produrre sistemi abitativi migliori, così che le persone possano davvero avere alternative. La mia visione è che l’Europa sia ossessionata in modo unilaterale, ad esempio con la carbon tax, credo che serva una combinazione tra sanzioni e politica industriale verde.

Quindi l’innovazione verde come diretta strategia di una politica industriale verde a lungo termine ma con una grande presa di coscienza sui problemi contingenti.

La via d’uscita è l’innovazione verde. E per innovazione verde intendo sia innovazioni per mitigare cioè rallentare l’aumento della temperatura sia innovazioni di “raffreddamento” per raffreddare l’atmosfera, per esempio, con la geo-ingegneria o con grandi schermi nello spazio. Sembra fantascienza, non so dove porterà ma nulla di tutto ciò dovrebbe essere sminuito. Quindi serve il ramo industriale per la transizione verde per l’innovazione verde insieme all’impianto sanzionatorio.

Questo è ciò che ci è mancato in Francia. E penso che la grande reazione contro il “green” derivi dal fatto che molti Paesi hanno adottato un approccio punitivo il che, a mio avviso, è stato un errore. L’Europa ha spesso usato il bastone del prezzo (carbon tax, ETS) senza offrire carote praticabili: trasporti alternativi, case efficienti, soluzioni “qui e ora”. Il risultato è il contraccolpo sociale.

Se vogliamo accelerare innovazione e consenso, non basta un regime sanzionatorio

Serve un braccio mission-oriented: una DARPA verde (DARPA, Defense Advanced Research Projects Agency è un’agenzia governativa del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, ndr.) e, più in generale, una DARPA europea che finanzi progetti alto rischio/altissimo impatto e chiuda il divario tra laboratorio e mercato. Un’agenzia tollerante al rischio, con mandato chiaro e milestone rigide, capace di spingere i breakthrough dal lab al campo con procurement trasformativo e sandbox aperti. Più in generale, una DARPA europea multi-missione ma con una coerenza di portafoglio, standard aperti per evitare lock-in, e challenge prizes (premi internazionali per la ricerca) per catalizzare il talento continentale. Il punto, adesso, è implementare davvero una strategia che creerà un contesto molto favorevole all’innovazione in Europa.

La mia ultima domanda è sui giovani. A 17–18 anni chiediamo di scegliere tra “umanistico” e “STEM”, dia un consiglio ad esempio a mio figlio che si trova in questa situazione.

La bussola è la passione: si eccelle dove si ama. Per prima cosa, ovviamente, se ho un figlio o una figlia che ama la letteratura, non dirò mai: dimenticala. Se hai una vocazione, una passione, seguila. Non sei mai bravo come nelle cose per cui hai passione. Quindi il mio primo consiglio è: se hai davvero passione, vai lì. Però è vero che, a parità di condizioni, io propenderei per le scienze. perché lì so che è più facile trovare lavoro. Ma non stiamo addestrando tastieristi di modelli.

Dobbiamo formare menti capaci di pensare con l’IA, non al posto suo. Ma, sa, se sono davvero bravi come scrittori, o nelle arti, o nella recitazione dovrebbero seguire la loro passione e diventare ottimi scrittori e ottimi attori. Io dicevo sempre a mio figlio: se vuoi diventare un netturbino, devi diventare un eccellente netturbino.

*****

Chiudo la videocall con Philippe Aghion con la sensazione che in 35 minuti ho ascoltato più contenuti interessanti che in cinque anni di convegni sull’innovazione. L’appello per noi europei è chiarissimo: chi innova non rincorre. E per smettere di rincorrere: basta retorica dell’innovazione, basta liturgie e alibi. Mercato unico high-tech, capacità del capitali di investire nel lungo periodo, laboratori finanziati, antitrust attentissimo e una green DARPA europea che trasformi l’innovazione in business innovation.
Le mie consuete domande finali. Ai CEO: la tua strategia d’innovazione è frontiera o rendita? Ai Chief Innovation Officer: per generare impatto scegli missioni o progetti?

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