IMPRESA FOR GOOD

Come misurare la sostenibilità di un’impresa: indicatori, protocolli, certificazioni

Ci sono molti indicatori per riuscire a misurare le performance di sostenibilità della propria azienda. Ecco una mappa per orientarsi tra gli strumenti a disposizione

Pubblicato il 17 Gen 2024

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Come si può misurare la sostenibilità di un’impresa? “Measure what matters” (in italiano “Rivoluzione OKR”) è il titolo del libro di John Doerr che propone la metodologia degli OKR (Objective and Key Results), a mio parere, e non solo mio, il sistema più efficace di gestione per obiettivi. Ne potete sapere un po’ di più ascoltando questo TED Talk ed avere un esempio di come gli OKR vengono applicati al cambiamento climatico leggendo un altro libro dello stesso autore e cioè “Speed & Scale”.

Come misurare la performance di sostenibilità della propria impresa

“Measure what matters” è anche lo stesso concetto che dovrebbe essere adottato da chi vuole misurare e quindi valutare in modo oggettivo la performance di sostenibilità della propria impresa, e cioè il suo impatto sulle persone, la società, l’ambiente. Vediamo come si può fare, basandoci su due princìpi.

Il primo è che “ciò che non si misura non esiste”, un’affermazione un po’ estrema ma che nasce dall’avere vinto la sfida “della misurabilità” ogni qual volta mi si diceva che un fenomeno aziendale non fosse misurabile. Con metodo e creatività una soluzione la si trova sempre.

Il secondo principio consiste nel non cadere in quella che chiamo “misurite”, cioè quella “malattia” che consiste nel porre più attenzione al misurare che al fare, un approccio contabile che contraddice lo spirito che deve animare chi vuole migliorare il proprio impatto. Ecco perché identificare ciò che va davvero misurato, perché conta, è essenziale, anche se tutt’altro che banale.

105 indicatori per la misurazione

Detto questo do subito l’impressione di smentirmi dicendo che nel libro “L’Impresa for Good” sono arrivato a proporre ben 105 indicatori. E non scherzo dicendo che il lavoro di selezione è stato difficile, tanto è vero che mi ero dato l’obiettivo di restare entro i 100 e non ci sono riuscito. D’altra parte, la numerosità dei temi che devono essere considerati sia dal punto di vista ambientale (economia circolare, inquinamento, biodiversità, emissioni) che umano e sociale (diversità, giustizia, inclusione, equità, benessere), richiede uno sforzo di quelle dimensioni. Ma da qualche parte si deve iniziare e quindi in questo articolo semplifico e propongo una sintesi estrema di ciò che certamente non può mancare. Eccola.

  1. Il primo fenomeno da misurare sono le emissioni di gas serra. Esistono oramai metodologie che permettono di farlo e che si adattano a tutti i settori. Ovviamente è più facile misurare le emissioni dirette, cioè quelle generate direttamente delle attività dell’impresa, che quelle indirette, cioè quelle che sono a valle e a monte della stessa. Il protocollo riconosciuto universalmente per farlo è il GHG (Greenhoose gas protocol), sul quale si trovano tutte le informazioni necessarie QUI. Fra le realtà che supportano le imprese in questa misurazione, e partendo da essa implementare una “strategia climatica”, segnalo invece Carbonsink.
  2. Secondo fenomeno da misurare è il differenziale fra le retribuzioni per genere a parità di ruolo, distinguendo fra le persone in ruoli manageriali (in gergo contrattuale dirigenti e quadri) e quelle in altri ruoli. Il punto critico della misurazione di questo indicatore è definire la “parità di ruolo”. Per le imprese che adottano sistemi di pesatura dei ruoli la problematica può essere affrontata facilmente. Per le altre l’esercizio è più complesso ma non per questo fuori portata e può essere facilitato dal considerare cluster omogenei di collaboratori, quindi prendendo come riferimento quelli che sono all’interno della stessa funzione e applicando dei correttivi rispetto ai livelli di competenza. In un’ottica di equità ed inclusione questa misurazione può riguardare anche il differenziale di retribuzioni per etnia.
  3. Sempre attorno al tema dell’equità, va misurata la percentuale di donne in ruoli manageriali in rapporto alla percentuale totale di donne sulla popolazione aziendale. Questo indicatore può essere influenzato dalla specificità di alcuni settori in cui la componente operaia è ancora prevalentemente di un genere rispetto all’altro e in quel caso l’indicatore va calcolato considerando solamente impiegati, quadri e dirigenti.
  4. Da fanatico del coinvolgimento della supply chain nel proprio percorso di sostenibilità, non posso che proporre di misurare anche questa. La cosa è un po’ complicata perché è difficile identificare un indicatore che sintetizzi in che misura questo coinvolgimento avviene. Ne ho scelto uno che so essere ostico. Questo è la quota di acquisti effettuati da fornitori per la cui filiera c’è la certezza che i comportamenti siano rispettosi dell’ambiente e dei diritti delle persone. Questa certezza può essere acquisita con diverse modalità: da un lato le certificazioni ambientali e/o legate ai diritti umani (ad esempio Fair Trade), o ancora meglio quelle olistiche come vale per le B Corp; dall’altro gli audit o comunque i riscontri diretti del modo di agire dell’impresa; infine, come detto in un precedente articolo sulla supply chain, si può ricorrere a questionari, che se bene formulati qualche notizia interessante la possono dare (sempre che non ci sia totale mala fede da parte di chi li compila).
  5. Rispetto ai temi dell’economia circolare, i fenomeni che è essenziale misurare sono due. Il primo riguarda quello che accade ai propri rifiuti e l’indicatore da considerare è la quota di rifiuti solidi riciclati sul totale dei rifiuti solidi prodotti. Questo indicatore, che riguarda in particolare le aziende manifatturiere, deve considerare solo quella parte di rifiuti che viene effettivamente riciclata, quindi non considera ciò che va a finire in un termovalorizzatore. E prevede un certo lavoro di controllo della catena a valle del conferimento, e quindi la verifica che ciò che viene conferito per il riciclo non subisca poi una sorte diversa (eh sì, succede molto più spesso di quello che si può immaginare come si può leggere QUI). Il secondo fenomeno che è basilare misurare è la quota di materiali che vengono utilizzati per la propria produzione che provengono dal riciclo.
  6. Un’impresa che vuole percorrere il sentiero della sostenibilità non può non preoccuparsi della soddisfazione dei propri stakeholder, e in particolare di quelli chiave (staff, clienti e fornitori). Per misurare in modo sintetico la soddisfazione dei clienti si ricorre sempre più spesso al Net Promoter Score (NPS), che sulla base delle risposte alla domanda sulla probabilità con cui consiglieremmo ad amici e colleghi il prodotto o il servizio che abbiamo acquistato, si calcola così. Lo stesso indicatore può essere utilizzato anche per lo staff, senza avere la pretesa di sostituire le più articolate indagini di clima, e per i fornitori.

    Misurare la sostenibilità: le domande da fare

    Ma mentre la domanda ai clienti è quella canonica, per staff e fornitori va adattata, ad esempio così:

  • consiglieresti a un amico di lavorare per questa azienda?
  • consiglieresti ad un’altra azienda di diventare nostro fornitore?

E sempre per lo staff, ma volendo approfondire un altro fenomeno, e cioè quello della qualità del rapporto fra capi e collaboratori, visto che la soddisfazione delle persone sul luogo di lavoro è intrinsecamente legata a come agiscono i capi, la domanda diventa:

  • consiglieresti a un collega di un altro dipartimento di lavorare con il tuo capo?
  1. E infine, sintesi della sintesi, si deve misurare dove va il denaro, applicando in un contesto diverso il principio “follow the money”, nato in ambito investigativo. Nel nostro caso si tratta di misurare quanto effettivamente si spende e si investe per essere più sostenibili. Per questo gli indicatori sono due, e cioè il peso degli investimenti effettuati per il miglioramento dell’impatto ambientale e il peso delle spese annue sostenute in modo specifico per il miglioramento dello stesso in rapporto al fatturato.

Misurando questi fenomeni si inizia a costruire già un “cruscotto essenziale”, certo incompleto ma che permette di orientare l’impresa verso i comportamenti altrettanto essenziali al definirsi sostenibile.

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Paolo Braguzzi
Paolo Braguzzi

Paolo Braguzzi è stato CEO di imprese internazionali per oltre 25 anni, in particolare nel settore della cosmetica. Oggi ricopre il ruolo di consigliere di amministrazione indipendente, è membro del Supervisory Board di B Lab Europe, del comitato esecutivo della The Good Business Academy e dell’Advisory Board di Assobenefit, oltre ad essere docente di Stakeholder Management dell’Università di Verona. Ha pubblicato con FrancoAngeli il libro “L’impresa for good. Come usare il business per creare valore umano, sociale ed ambientale”.

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